sabato 26 settembre 2009

Oche (parte I)



Sempre della serie “la mia famiglia ed altri animali”, anche se sarebbe più da dire “gli animali e la mia famiglia”, sono le oche Gina e Pina.
Approdarono nei giardini circa tre anni fa, o quattro, per il compleanno di mia mamma. Mi sentirei in colpa se non aggiungessi che tutto partì da una mia battuta. Se avessi tenuto la boccaccia serrata, a questo punto non avremmo di questi problemi. Comunque sia, non si può cambiare il passato: quando mio papà, indeciso sul regalo da comprare, mi chiese un’opinione, io dissi, data la passione di mia mamma per qualsiasi cosa riguardi i simpatici bipedi bianchi e dondolanti, “ma prendiamo due oche!”. L’avevo detto per scherzo, però.
Mio papà l’aveva preso sul serio, così il pomeriggio si precipitò all’allevamento più vicino a casa, comprò due pulcini gialli e li chiuse in garage, dentro una cassetta di legno perché non scacazzassero sulla sua preziosa moto Guzzi. Il mattino dopo, sveglia presto per sgattaiolare a riprendere i pennuti, agghindarli con rispettivamente un fiocco rosso e uno rosa e portarli sotto il portico, sempre nella loro cassetta.
Allo starnazzare sconosciuto, mia mamma si affacciò al balcone e vide due pulcini gialli e strapazzati che imploravano amore materno. Le si sciolse il cuore.
Gli inizi furono idilliaci: era estate, e i piccoli ci zampettavano dietro ogniqualvolta uno di noi uscisse in giardino, e pigolavano perché ci fermassimo ad aspettarli. Erano così buffi, mentre arrancavano tra l’erba sempre troppo alta per loro, e li osservavamo orgogliosi mentre ci becchettavano affettuosamente le dita quando gli porgevamo dei fili d’erba da mangiare.
Purtroppo presto arrivò l’adolescenza, e con questa si presentarono anche squilibri mentali che non si erano mai manifestati prima. Intanto non erano più i dolci pulcini piumosi e soffici, ma due ocotti di mezza taglia, spennacchiati e bianchicci per la muta delle penne, che sbatacchiavano le ali ancora troppo piccole correndo per il giardino. Era uno spettacolo tristemente comico vedere gli sforzi dei due piumati per levarsi in volo, e noi aspettavamo che il cambiamento si completasse per avere finalmente i due bianchi pennuti che mia mamma sognava.
Un giorno, mentre la muta non era ancora completa, mio fratello aveva portato le due oche a fare un giretto per il giardino. Sedutosi, aveva iniziato a porgere i consueti fili d’erba ai pennuti, quando improvvisamente uno dei due, spalancate le ali e fissato l’umano con sguardo vuoto e minaccioso, gli si precipitò contro beccandolo nel mezzo della fronte. E questo fu l’inizio.
Un altro pomeriggio, mentre passavamo un dopo pranzo all’aperto bivaccando al tavolo ancora apparecchiato, arrivarono i nostri due cani –sempre loro, sì-, che iniziarono ad azzuffarsi fraternamente per farsi un po’ notare. Immediatamente, una delle due oche che stava militando attorno al tavolo per controllare che l’ordine regnasse e interpretava magistralmente il ruolo di carabiniere, si precipitò a separare i due litiganti, beccandoli abbondantemente su testa e fianchi. Non ho mai visto i miei cani scappare con uno scatto così veloce, e sì che ho passato due anni a vedermeli fuggire da sotto il naso.
Da quel giorno, i cani avrebbero girato bene al largo e con la coda tra le gambe, guardandosi bene dall’ avvicinarsi alla coppia di piumati gendarmi che pattugliava notte e giorno il giardino. Quando i cosiddetti migliori amici dell’uomo se ne andarono per diventare esperti pet-therapisti, sono sicura che i due pennuti si sentirono smodatamente compiaciuti nell’aver eliminato dalla scena due dei concorrenti al controllo del giardino.
Nello stesso tempo, iniziava a rendersi chiaro che i palmati due non erano Gina e Pina come avevamo tanto sperato, ma Gino e Pino. Niente uova di oca, quindi, e niente nuovi pulcinotti allegramente pigolanti ad animare il giardino.

Con l’arrivo dell’autunno, l’inizio della scuola e il rientro nel tran tran quotidiano, le oche –pardon, gli ochi- iniziarono a trascorrere molto tempo da soli. Non avevamo più la possibilità di seguirli e accompagnarli in lunghe passeggiate all’aperto, e loro pian piano si dimenticarono di noi; ci rimossero dal loro piccolo cervello. Le nostre facce non significavano più niente per loro, nonostante ci vedessero quotidianamente, e questo significò la rottura del rapporto: ci identificavano come estranei, e come tali andavamo allontanati.
Ma questo è quello che penserebbe una normale oca. Le nostre, con il loro delirio di onnipotenza, pensavano che in quanto estranei andassimo definitivamente eliminati, e per proseguire nel loro intento ci puntavano a collo teso e ali spalancate, starnazzando in modo ben poco amichevole ogniqualvolta osassimo mettere il naso nella loro area di competenza. Il che significava ogni volta che si metteva il naso fuori di casa, perché le due pennute si erano bizzarramente convinte di essere padrone dell’universo.
Sfortunatamente non ci fu mai modo di farci riconoscere nuovamente come amici, e nonostante l’arrivo della primavera seguente e la nostra presenza sempre più assidua in giardino, le due continuavano imperterrite a puntarci e farci fare di quelle corse che alle Olimpiadi se le sognano.
Era diventato un problema anche solo aprire il cancelletto del loro recinto: non appena il chiavistello scattava, le due si precipitavano contro l’usciere, costringendolo a doverose ma poco onorevoli ritirate accompagnate da ululati di terrore e strilli riecheggianti.
Per darci un contegno e tentare di sottrarci al tristo destino di venire sottomessi da una coppia di oche –oche!-, iniziammo a girare per il giardino muniti di bastone.
Non sto scherzando. Provate voi a farvi attaccare da una coppia di oche –permettetemi di continuare a sottolinearlo, perché vorrei mettere totalmente a fuoco la questione: stiamo parlando di oche. Qua-qua. Zampe palmate e coda scodinzolante a ritmo con l’andatura a dondolo. Non parlo di Rottweiler né di zebre scalcianti. Quelle che avevano preso il potere nel nostro giardino erano due oche.- oche assatanate, dicevo, e vediamo poi chi ride. La situazione era diventata pericolosa: non si poteva più uscire di casa senza sentire il feroce sibilo alle spalle. A quel punto si rientrava, ci si blindava la porta alle spalle e –dopo opportuni riti di incoraggiamento guardandosi allo specchio e gonfiando i muscoli- si usciva solamente armati.
Purtroppo, con l’arrivo dell’inverno seguente, una tragedia accorse.
Mentre eravamo lontani da casa –il tutto nei giorni della merla, un freddo cane che non si immaginava-, le due oche erano riuscite ad evadere dal recinto e, preparando piani di assalto alle macchine una volta saremmo tornati a casa, si erano date alle passeggiate di complotto.
Un giorno le passeggiatine finirono: uno dei due allegri compagni si avventurò nella piscina, allora ghiacciata, e, forse dopo strenue lotte per uscire, forse abbandonandosi languidamente al freddo, annegò.
Forse si trattava di suicidio, perché è il primo caso di oca annegata di cui sento parlare.
Quando tornammo, trovammo il macabro spettacolo dell’oco a ali spalancate e collo affogato, mentre il suo compagno lo aspettava a bordo vasca, starnazzando e chiamandolo affinché uscisse e la smettesse di scherzare, dato che iniziava a preoccuparlo. Era una scena di una tristezza infinita.

I cani




Che a casa nostra non girino animali tanto normali, ormai si sa.
Si era partiti quindici anni fa con i gatti, ognuno chiamato con il nome di una pietanza –quando mai si era sentito parlare di un gatto chiamato Brodo?-, per poi avere i pesci cannibali e in seguito i cani, dotati di privata ambizione di sterminare i pollai dei vicini e finiti per esasperazione in un centro di ex-tossico dipendenti. Poi sono venuti i pennuti: i piccioni molestatori della quiete pubblica, le oche convinte di dominare il mondo e infine le galline da attico.

Tralasciamo i gatti, che possono definirsi anche normali se si sorvola sul nome e sulle strane attitudini quali il dormire in equilibrio sulla testa di una statua aborigena o sul bracciolo di una panchina, l’apparire sui balconi delle finestre ad altezze sconsiderate –ovviamente appaiono dall’esterno- e l’avere ognuno un’autostima che supera i livelli di sicurezza. Ma d’altronde sono gatti. I gatti sono narcisi di natura.
Passiamo subito ai cani, invece: i due animali erano una felice coppia di fratellastri adottati in tenera età dopo mesi e mesi di sfinimento "papà, vogliamo un cane!". Va sottolineato il "papà". La mamma, che certe cose se le sente, aveva già i suoi dubbi riguardo la cosa. Comunque sia, alla fine la vincemmo noi. E li portammo a casa.
Uno dei due era relativamente normale. Da cucciolo, voglio dire. Prima di arrivare a casa nostra.
Era un normale cucciolotto, uno di tanti fratelli, sguardo felicemente ebete ma dolce, un’allegria sconsiderata, pancia tonda e gommosa, insomma, la beatitudine di essere cane.
L’altro, ahimé, era strano fin dall’inizio, e tutte le famiglie adottive l’avevano notato, scartandolo accuratamente. Era infatti rimasto l’ultimo della cucciolata, solo nel recinto.
Mio papà –e qui si potrebbe scegliere un epiteto che non sarebbe molto gradito ma che paragonerebbe il genitore a un folpo di mare- si era intenerito a vederlo, quel povero cucciolo solo soletto e rifiutato dal mondo, e così aveva deciso di prendere anche lui.
Rendo noto che quando si comprano dei cani, prendere una coppia di maschi è, per dire, smodatamente incosciente da parte degli acquirenti, in quanto i quattrozampe risvegliano le origini lupesche e creano branco a sé, in cui ovviamente gli umani non sono inclusi. Questo porta a diverse manifestazioni di indipendenza e ribellione che generalmente si concludono con la disfatta di uno dei branchi. Quei due malefici vigliacchi avevano deciso che ci avrebbero portati alla sconfitta per sfinimento, e così cominciarono fin dalla più tenera età a scavare fosse sotto la rete del giardino per fuggire verso la libertà. Questa corrispondeva con i campi di pannocchie circostanti. Migliaia di metri quadrati –centinaia di migliaia- di campi di pannocchie.
Che in autunno, ancora ancora, non costituiscono una foresta. Vengono tranciate e i campi restano coperti dagli smozziconi di fusto, altezza media trenta centimetri. In estate, però, i suddetti vegetali acquistano un che di alquanto fastidioso in quanto si ergono in altezza fino a raggiungere i due metri abbondanti, costituendo così una sorta di coltre verde -una volta il nostro giardino, in estate, venne definito "un bosco in mezzo a una foresta"- attraverso la quale non vedi ma neanche se hai i raggi x al posto degli occhiali.
Ecco, i nostri adorabili cani si divertivano a scorazzare tra le simpatiche pannocchie, lasciandoci puntualmente con un palmo di naso. Era seccante sentire le sfuriate di mio papà ogni volta che noi imbecilli ci lasciavamo sfuggire i cani, che divertiti scappavano da tutte le parti, ma fortunatamente una volta, mentre con il cancello socchiuso lui firmava una ricevuta al postino, i due bastardi –che poi tanto bastardi non erano- gli svicolarono tra le ginocchia per darsi all’allegra corsa campestre quotidiana. Da allora, mai più verbo fu proferito riguardo al farsi sfuggire i maledetti da sotto il naso. Ne furono proferiti alquanti, però, quando gli amati e fedeli compagni quattrozampe fecero strage di ben due pollai, divertendosi a fare razzia e a farsi poi trovare dai fattori, sorridenti ed esausti dopo la notte di follie. Circondati da cadaveri o pennuti moribondi. Generalmente tenevano anche in bocca una zampa di gallina, tanto per non far capire che erano stati loro a trucidare orrendamente tutti i poveri gallinacei.
Spesso alle scorribande dei nostri cari, si univa anche un botolo dei vicini, un maltese di dimensioni 40x20 e dal pelo rapato a zero. Il suddetto nano maltese era ferocemente innamorato del cane pazzo -quello pazzo davvero- nostro. Erano una coppia affascinante, a dire il vero. Anche il trio, nel complesso, non se la cavava male; mia mamma era ormai rassegnata al sentirsi rispondere, quando nel mezzo della ricerca disperata domandava ai passanti se avevano visto due cani in fuga, “due no, signora, ma di cani bianchi ne abbiamo visti tre. Andavano da quella parte.”.
Dopo un paio di anni all'estenuante ritmo di un paio di scappate al giorno, per puro caso e oserei aggiungere per puro culo, venimmo a sapere dell’esistenza della pet-therapy in strutture di riabilitazione per tossici o portatori di handicap. Dire che ai miei si rizzarono le orecchie è superfluo. Nel giro di una settimana avevano trovato contatti con un personaggio in una di queste comunità, lavato e profumato i cani e li avevano portati in montagna a fare un incontro per vedere se erano adatti all’incarico. Penso che mia mamma abbia pregato tutti i santi pregabili per far sì che i due mostri venissero accettati e lei fosse liberata da quel fardello che le rovinava la vita da due anni a quella parte.
I due fetenti –e per questo direi che la fervida fede risvegliatasi in mia madre durante quella settimana ha portato a risultati immediati e concreti- furono immediatamente accettati.
Fetenti perché si comportarono impeccabilmente, camminando al passo tranquillo dei padroni, quasi sfilando, e mostrandosi addirittura timidi e deferenti di fronte alle alte cariche del centro.
Fu dunque così, dopo due anni di convivenza, che i nostri cani fuggitivi –di cui uno di tendenze gay- si ritrovarono in un centro di cura per drogati.
Ora che non vivono più con noi pare che siano alquanto tranquilli tutti e due.

venerdì 18 settembre 2009

Grammaticalmente, ti amo.



"Ti amo".
Cinque lettere: tre vocali, due consonanti e poi lo spazio, che va considerato, sennò si offende e sparisce, lasciando che le altre due parole si attacchino/ "Tiamo"/ fuse in un'unica parola che non racchiude il significato delle altre due.

"Ti amo", "I love you", "Je t'aime".
Tre modi per dirlo, stessa sensazione che si prova a sentirselo dire.

"Ti amo".
Io, soggetto, amo, predicato verbale, a te, complemento di termine.
Tre parti, come di tre parti è composta la frase, senza troppe analisi: parola, spazio, parola.
Soggetto, complemento, verbo.
Io, te, l'amore.
Tre parti.

giovedì 17 settembre 2009

Una Chat su Skype



Popi, perché non mi chiami?

Risulti non in linea

Risulto?

Sì, non in linea, ma…

Che strano

Che strano cosa?

Risulto

Risulto?

Sì, non in linea. Risulto è strano.

Beh, insomma…

Popi, quant’è che non usi la parola bastimento?

Bastimento?

Io l’ho usata ieri finendo una lettera, ho mandato un bastimento carico di baci dentro la busta; pensavo di aver dimenticato quella parola, e invece al momento giusto è saltata fuori. Voglio dire, “giusto”, dovrebbe far piacere ricevere un bastimento carico di baci, no? Era una buona conclusione per una lettera, eh Popi?

Sì, ma cosa c’entra?

È che risultare non in linea mi pare strano!

Pomi, sragioni…

No, no! Risultare non in linea è come bastimento! Dire che risulto non in linea… Mi pare di sentir dire che c’è un bastimento in porto. Non dici che c’è un bastimento in porto neanche se lo vedi: dici che c’è una barca, una nave, un transatlantico! E mi vedi non in linea, sembro non in linea, non mi trovi in linea, sono disconesso. E poi Popi, io sono!, sembro!, dai, non risulto! Non voglio risultare qualcosa, Popi, voglio essere qualcosa! O anche qualcuno, eh, anche se devo dire che essere una teiera non dovrebbe essere quel gran male, voglio dire, sei lì, to...

Pomi

Sì Popi

Stai zitto

Ok Popi.