lunedì 23 marzo 2009

Lunedì mattina



Esco di casa –borsa in spalla, mezza colazione ancora in bocca-, è ancora presto.
Un silenzio mattutino avvolge la via laterale del piazzale di Caripegne –è lunedì mattina-.
Regna un silenzio assonnato.
Un silenzio intorpidito.
Un silenzio che, lo sa anche lui, tempo quattro minuti –sono le setteetrentasei- inizierà a creparsi, per poi distruggersi e disintegrarsi in mille rumori nel caos di quel quarto d’ora –dalle setteequarantacinque alle ottoinpunto, a volte fino alle ottoecinque- in cui le macchine, i motorini, le biciclette e gli studenti vagano allo stato brado nella savana della Via delle Scuole di Caripegne.

Il silenzio intatto si gode fino all’ultimo secondo, coccolandosi nella sua integrità: sembra tutto deserto, le case con le tapparelle abbassate, la strada vuota, i primi raggi di sole che spuntano da dietro le case.
Poi l’orologio scatta: manca un quarto alle otto. I cancelli delle scuole vengono aperti.
L’orda arriva.

Immaginate di essere un tordo: svolazzando e vedendo la via dall’alto, si penserebbe a una statale, a un’autostrada –magari la A4- nell’ora di punta.
Enormi SUV, corriere gremite, motorini moscerini, biciclette pirata, alunni ciminiera girano bloccandosi nel traffico, realizzando ammirevoli concerti di clacson e scampanellii e creando un nuvolone tempestoso di gas e fumo di sigarette che vaga sopra i tetti, oscurando il tenue sole mattutino.
Li osservo, al sicuro sul marciapiede, e cammino verso il liceo.

Generalmente, dalla bolgia di auto incastrate, la prima a farsi notare, in quanto prima causa del mosaico di traffico, è il SUV della mamma ansiosa.
La noti dal fondo della via.
La mamma ansiosa porta il figliolo a scuola ogni mattina, perfettamente puntuale, spesso in largo anticipo, esattamente davanti ai cancelli scolastici della scuola superiore del rampollo.
Si piazza davanti all’entrata con il suo macchinone, ma non si accontenta di scaricare il pargolo in corsa, evitando di fermarsi troppo a lungo per non creare una coda chilometrica alle sue spalle, no.
Lei, prima di lasciarlo andare, raccomanda al piccino di fare il bravo, di seguire le spiegazioni, di concentrarsi, di mangiare la merenda, di non preoccuparsi se qualcosa va male, che a discutere con i professori ci andranno lei e papà.
Per il tutto ci mette un paio di minuti.
Due minuti sono niente, in una giornata.
Due minuti, all’orario di entrata a scuola, e precisamente in Via delle Scuole a Caripegne, sono un’epoca e mezza.
E se per quell’epoca e mezza tu ti fermi in mezzo alla strada con una specie di panzer quattroruote tirato a lucido, crei un intoppo, un intralcio, un blocco, insomma, infogni il traffico per il seguente quarto d’ora.
La mamma ansiosa lo sa questo, ma non gliene frega assolutamente nulla.
Per il suo piccolo, questo ed altro.
Dopo le raccomandazioni –“sssì mamma”- il fanciullo - un metro e novanta di fanciullo per ottanta chili, solitamente tri-bi-ripetente- spalanca la portiera colpendo un innocente studente-pedone ed esce, passo strascicato e spalle curve, dirigendosi in classe.
La mamma resta, sta a guardare il figlio -adorante e silenziosa- finché non scompare inghiottito dalla folla di compagni, ma all’ultimo momento, quell’attimo prima che il suo bambino venga divorato dal portone della scuola, l’istinto materno affiora prepotente, le fa spalancare il finestrino e gridare un “buona giornata, stella!”, per poi rombare via, incarognendosi con il traffico e lanciando le peggiori bestemmie a quelle mamme che si fermano davanti alla scuola per lasciare i figli.

Supero la scuola dove la prima mamma ansiosa della giornata ha scaricato il discendente -un professionale popolato da soli esemplari di adolescente maschio probabilmente umano-, e proseguo inoltrandomi nel cammino e nella folla di studenti che si ingrossa ad ogni metro.

Mentre la mamma ansiosa ricopre il suo ruolo di mamma ansiosa, ostruendo la viabilità stradale, i marciapiedi diventano regno induscusso dei ciclisti –la pista ciclabile è un optional, a Caripegne-.
Felici di non dover combattere con i motociclisti moscerini per la sopravvivenza nell’habitat asfaltato, schizzano a velocità folli per tutti i marciapiedi, scendendo e risalendo a seconda dello scorrere delle auto, rischiando di fracassarsi contro una macchina –in strada- o –sul marciapiede- di travolgere greggi di innocenti studentelli delle scuole medie, ancora ingenui e ignari delle tecniche per evitare i ciclisti killer, quali il muoversi “a muraglia” –spalancare le braccia ed avanzare a passo di lumaca, oppure prendersi tutti a braccetto e costituire una barricata umana occupando tutto lo spazio disponibile -, o, se in solitario, il munirsi di cinque borse e sacchetti –sacca di ginnastica, zaino, borsetta, busta con dizionario ed eventuale seconda borsa per portarsi ulteriori libri scolastici- e quindi rendere impossibile il sorpasso da parte di un pedalante anomalo, impaurito dal rischio di agganciarsi a uno dei vari manici o spalliere delle borse.
Con un balzo acrobatico schivo tre ciclisti, faccio la gimcana per evitare un paio di sportelli automobilistici in apertura, poi –e scusate, eh- inizio a camminare a gambe larghe, stile sceriffo western, gomiti sui fianchi e andatura placida, pronta ad andare letteralmente incontro a qualsiasi ciclista mi si avvicini.
Questo marciapiede è troppo stretto per tutti e due.
E quella che scenderà in strada non sarò certo io.

In eccezionali giornate o orari in cui le mamme-stoppa-traffico non sono ancora posizionate nel mezzo della strada, e quindi la via è ancora libera, i ciclisti sono soliti muoversi in blocco compatto, occupando ovviamente tutta la corsia del senso e muovendosi al rallentatore, sostituendo quindi le mamme ansiose nel ruolo di intralcio stradale.
Sordi ad ogni suonata di clacson, continuano la loro lenta marcia verso le differenti scuole, aumentando di numero di metro in metro, accorpando al branco tutti i ciclisti circostanti.
I motorini moscerini, ovviamente, vedendosi la pista intralciata da esserini più lenti e più piccoli di loro, si inveleniscono.
Non potendo lanciarsi nello stormo di ciclisti e investire l’investibile -causa vigile vigile pronto ad appioppargli una multa da capogiro alla prima infrazione- , il motorino moscerino si imbastardisce.
Simulando un innocente sorpasso –il fatto che sia a destra non modifica la sua innocenza-, cerca di passare a massima velocità alla minima distanza dal manubrio del ciclista esterno, magari tentando di agganciargli la borsa da ginnastica e quindi trascinarlo per qualche metro.
Se in compagnia, i motorini moscerini adottano la tecnica bilaterale: superano in massa, dividendosi metà a sinistra e metà a destra, e stringendo l’informe massa ciclistica e riducendola alla fila indiana.
A quel punto tu li guardi e ridi, perché quei ciclisti là, il giorno prima te li eri trovati sul marciapiede e ti avevano fatto ballare la salsa per evitarli nel loro procedere zigzagato.

L’unico che in strada non risente dell’attacco motociclistico è il ciclista filosofo.
Il ciclista filosofo -a volte uno studente, a volte uno stesso professore di filosofia- vaga distratto e distaccato dall’agglomerato ciclistico su una bicicletta sgangherata che sembra pronta perdere pezzi ad ogni curva, ma che si regge intatta grazie a chissà quale forza divina o fisica.
Impassibile a qualsiasi tentativo di richiamo, appare totalmente immerso nei suoi pensieri –occhi socchiusi e bocca semiaperta che gli conferiscono l’autorevole aspetto di una triglia al forno- e pedala ancora più lentamente del normale, generalmente al centro della strada con moto vario e traiettoria a zig-zag che rende impossibile il sorpasso.
Quando il ciclista filosofo è un professore, il motorino moscerino non si azzarda a tentare di superarlo.
Quando il ciclista filosofo è un coetaneo, il motorino moscerino non si fa troppi problemi a cercare di passare oltre, con risultati immaginabili.
Il punto peggiore in cui ci si possa imbattere in un ciclista filosofo, è la fermata delle corriere navetta, poiché il rischio di stampare la propria faccia sulla fiancata di uno dei grossi mezzi di trasporto è molto elevato.

Ma le fermate degli autobus non sono luoghi minati solo per l’ignaro ciclista filosofeggiante.
Anche io, innocente pedone, rischio di essere travolta in quelle banchine di scarico, quelle valanghe di zaini, quelle cascate di alunni che si precipitano fuori dalle porte –aria!-.
Cariche come vagoni di treni ai tempi delle deportazioni ai campi di concentramento, le corriere arrivano puntualmente in ritardo e in massa.
Alle setteecinquantaude precise, in piazza, le figure di quattro navette si stagliano all’orizzonte.
Una per punto cardinale.
Sento il rombo dei motori alle mie spalle e rabbrividisco, nonostante io sia ormai a metà strada, non lontana dalla mia scuola.
Purtroppo sono ancora troppo vicina al vicolo delle corriere.
Con manovre allucinanti e quantomai aggrovigliate –lunghi bruchi blu e arancioni-, si impelagano tutte per la stretta via che collega il piazzale con la maledetta Via delle Scuole, incolonnandosi e strombazzando, creando un incredibile blocco del traffico di lunghezza impensabile.
Tutto questo è dovuto al fatto che la prima corriera si ferma alla prima fermata: cinque minuti perché tutti scendano.
Nel frattempo le altre tre corriere aspettano diligentemente in coda, e io cammino sempre più in fretta, sentendo l’orda di scaricati alle mie spalle.
Finito lo scarico, la prima se ne va, e la seconda procede oltre la prima fermata per arrivare alla propria, cinque metri oltre la prima.
Altri cinque minuti per lo scarico degli studenti ammassati nella seconda corriera, poi il procedimento si ripete con la discesa dei barbari della terza e quarta corriera, rispettivamente alla terza fermata –dieci metri dalla fermata numero uno- e alla quarta –quindici metri dalla prima-.
Grazie all’invasione degli studenti provenienti dai comuni vicini, il traffico si blocca per venti minuti.
Ovviamente il vigile vigile non può intervenire, in quanto sta sorvegliando i motorini moscerini perché non cerchino di sterminare i ciclisti, filosofi e non.


Dopo essere stati scaricati dai rispettivi mezzi di trasporto quattroruote, noi studenti ci dirigiamo verso le rispttive scuole, mescolandoci e smistandoci mano a mano che procediamo per la via.
Siamo in tanti.
Ma tanti tanti, perché i diversi sindaci di Caripegne dopo Lanzarelli, sindaco negli anni ’60 che fece costruire il liceo, hanno avuto tutti la brillante idea di far costruire una scuola per ciascuno.
E non hanno pensato di costruirle sparse.
Hanno tutti avuto il geniale pensiero di concentrarle in un’unica via, così ora la Via delle Scuole di Caripegne –il cui vero nome sarebbe Via Salenzi- conta sei edifici scolastici, nell’ordine da est a ovest: una scuola elementare, una media, un asilo, un liceo, un professionale artistico e un professionale IPSIA.
La media di alunni per scuola è di cinquecentootto ragazzi.
Capirete che, nonstante le elementari e l’asilo entrino rispettivamente mezz’ora e un’ora dopo i mediani e i liceali, il numero di ragazzi dell’età compresa tra undici e vent’anni vaganti per la strada prima delle otto è esorbitante.
Una specie di orda barbarica che discende dai letti, una masnada di giovani menti pronte a stravaccarsi sui banchi, una torma di teenager armati di zainetto che occupa e popola i marciapiedi, scontrandosi con ciclisti impazziti, lanciandosi nel mezzo della strada per attraversare, scendendo con un balzo dalle macchine in semimovimento.
Un’onda.

giovedì 19 marzo 2009

La casa di riposo






La casa di riposo di Caripegne è in centro, vicinissima all'ospedale e al cinema, affacciata su una splendida stradina incatramata dove le auto fiumano tutto il giorno investendo piccioni.
Tecnica astuta, quella del sindaco che, anni fa, fece costruire l'edificio proprio lì: data l'ubicazione, ai vecchietti non viene neanche l'utopica visione di uscire dal cancello per paura di fare la fine dei pennuti.
Oltretutto l'entrata della casa e il cancello distano di qualcosa come duecento metri di stradina sassolinosa e impolverata, che diventa un fiume nei giorni di pioggia.
Strada a prova del più teconologico modello di sedia a rotelle o stampella, è percorsa tutti i giorni da parenti o volontari in un giubilare di bestemmie e insulti al sindaco. Tra le varie richieste di miglioramento è spuntata pure la proposta di organizzare un servizio zattere dal cancello all'ingresso, tanto per rendervi la situazione.
Il giardino è bello, molta erba, alberelli, cespuglietti, una pista per le bocce, diversi spazi dove in estate gli ospiti giocano a carte in infiniti tornei, canasta per le signore, briscola i signori, e poi una rampa sospetta, suppongo serva a fare gare con le carrozzelle, ma non ho mai visto nessuno in azione.

Percorsa la stradina, per entrare nell'edificio si devono superare due porte ad apertura automatica.
Teoricamente, quando qualcuno si mette davanti, si dovrebbero aprire.
Praticamente, quando uno si mette davanti, non si apre un bel niente, e per riuscire ad entrare si devono provare diverse posizioni acrobatiche, divincolandosi e agitandosi in tutti i modi.
Questo succede solo ai visitatori, però, i vecchietti ospiti non appena si avvicinano all'entrata hanno le porte spalancate in fronte a sè.
Perchè questo?
Il motivo risale a qualche tempo fa, quando alla casa di risposo è arrivato Tonio, l'ex elettricista, ormai un po' fuori di testa ma ancora bello sveglio.
Appena ambientato ha iniziato ad annoiarsi, e per passare le ore ha deciso di manomettere tutti gli impianti elettrici della casa, così, per divertirsi un po'.
Tempo una settimana e il salone d'ingresso sembrava un' astronave: luci impazzite che si spegnevano e accendevano in alternanza, l'altoparlante solitamente sintonizzato su RadioMaria che si spostava automaticamente su Radio Capital ogni volta che sull'altro canale si sentiva la parola "AMEN", la tombola automatica che sparava i muneri a destsra e a manca, una follia.
Ancora annoiato, però, Tonio ha avuto un'altra geniale idea: manomettere la porta automatica.
Nottetempo ha tolto qualche filo, connesso una piccola consolle e dato un importante incarico a Dolfina, la paziente con la sindorme di Down che non ha mai avuto nulla da fare, nè è mai stata badata da nessuno.
Ora vorrei ben vedere se c'è qualcuno che non la saluta.
Seduta comodamente nella poltrona vicina all'entrata, Dolfina stringe tra le mani la consolle, ridendo come una bambina e decidendo chi entra e chi sta fuori, aprendo la porta al suo comando e facendo fare ai poveri visitatori saltelli, piroette, step e quant'altro per poter entrare.

Entrati nel salone, esausti dopo una seduta di aerobica davanti alla porta, come prima cosa si saluta Dolfina, e come seconda si fulmina Tonio con un'occhiataccia, mentre lui fa finta di niente e ti sorride angelico.
Il salone non è brutto: grandi vetrate a destra, a sinistra un piccolo palco dove fanno la messa e i concerti, e sparsi per la sala tanti tavolini e poltroncine.
Ai tavoli, ovviamente, si gioca a carte e a tombola, si leggono giornali e si discute, ma non la discussioncina da vecchiette placide e tranquille, no!
Generalmente al centro della lite c'è Polanellina, ex maestra, ora novantenne e quasi cieca.
Essendo cresciuta in una famiglia di sioretti di origine nobile, è stata impeccabile per tutta la vita, mai pronunciata una parola di troppo o un insulto. Beneducata e religiosa, ha potuto frequentare tutta la scuola, arrivando a prendere il diploma, per poi decidere di prendere la strada da maestra e insegnare alle elementari per mezzo secolo.
La sua entrata nella casa di riposo rimarrà nella storia:
Tutti erano stati tirati a lucido, il salone pulito, vecchietti col vestito buono, signore con la messa in piega fatta. "A riva a maestra Benigardi!"* era il grido di battaglia delle infermiere quando dovevano mettere in ordine i recalcitranti anziani, che al nome della vecchia insegnante non osavano protestare.
Arrivato il gran giorno, tutti erano in salone ad aspettarla.
Si apre la porta, la sua sagoma si staglia nella luce.
"Ah Dio bon, vara che mestieri, che ordine! Cossa casso gavio fato?"** sono state le sue prime parole.
Da quel giorno non c'è stata pace, in salone. Polanellina partecipa a tutte le discussioni, infarcendo i discorsi con termini da scaricatore di porto imparati chissaddove.

Dopo il salone c'è un bar, la sala da pranzo e la cucina, affacciata su un corridoio stretto e lungo che ti porta all'ascensore.
Aspetti una decina di minuti (c'è un solo ascensore in tutto lo stabile) e poi sali al padiglione FG4.
Quando arrivi al piano ti trovi in un altro corridoio che ti porta dritto fino alla saletta con la televisione e una cucinotta.
Per arrivare al salottino passi davanti a una quindicina di camere disposte lungo il corrodio. Cammini, guardi a destra e sinistra.
Fuori dalle stanze c'è un cartellino con il nome della signora ospitata.
Polanellina, Dolfina, Triestina, Tatiana, Sidolina, Evaldo, Germana, Oliva,... Ufficio?
Dopo una serie di nomi di questo genere, giuro, quando si vede scritto "ufficio" si pensa subito a dei genitori un po' troppo bizzarri.

Il televisore è sempre acceso su reality o programmi spazzatura. La vita in diretta, Amici, Uomini e donne,.... Le vecchiette guardano, sembrano interessate e non scollano gli occhi un secondo dallo schermo, ma chissà cosa vedono in realtà.
Lì attorno allo schermo c'è Annantonia, piccola piccola, infagottata in una tutina e rincagnita in un seggiolone. Non si muove mai, tiene gli occhi chiusi e un biberon stretto nella mano sinistra.

A destra, la Maria con l'Alzhaimer, che parla tutto il tempo, una nenia senza fine di sproloqui. Parla in italiano, per giunta. Una vita passata a parlare dialetto e poi quando hai l'Alzhaimer scopri di essere bilingue.
Un giorno le hanno parlato di suo figlio, Carlo.
-"Carlo, e chi è Carlo?"
-"Maria, è tuo figlio. Carlo, dai!"
-"Ho un figlio? Nessuno mio aveva mai detto niente!"
La Maria senza Alzhaimer -sinistra- passa le giornate a lavorare a maglia, da sciarpe e maglioni a non finire. Colori un po' assurdi, ma i lavori che fa sono ammirabili, non le casca un punto.

Poi c'è Evaldo, uno dei due signori del piano, lontano dalla televisore si mette schiena al corridoio e sguardo al muro avanti a sè.
Lui ha freddo, sempre freddo. Un giorno ha fatto impazzire il medico che doveva visitarlo: per spogliarlo ci hanno messo cinque minuti -minuti, eh, non secondi- perchè il signore, là, aveva indosso ottto, dico OTTO, magliette di lana e canottiere, più la camicia, il pullover, la giacca, la sciarpa e il cappello. E non è scoppiato di caldo, anzi, quando poi è passata la Caterina, l'infermiera che porta la merenda, le ha chiesto se gli poteva dare un the caldo, ché sentiva freddo.
Le infermiere lo prendono in giro, perchè è il più grande bastian contrario che possa esistere sulla faccia della terra e brontola, brontola, brontola a non finire: il tempo, la cena, il letto, gli altri ospiti del piano ("i ze tuti fora de testa!"***), lo yogurt per la merenda,...
Spesso, il martedì, da lui c'è una ragazza con la giacca rossa e una borsa arancione, dev'essere sua nipote. Quando c'è lei parlano in uno strano slang di dialetto e inglese, perchè Evaldo ha vissuto in Canada e Australia tanti anni, prima di andare in casa di riposo, e se c'è qualcosa che ama fare è pontificare nel suo inglese dialettale facendosi ben sentire da tutte le infermiere che passano.

Davanti a lui c'è sempre Marialuisa, seduta sulle poltronicine vicino alla sua stanza. Dormicchia sempre, e quando è sveglia parla con il pappagallo Scrik, nella gabbietta di fianco a lei.
Antonia è l'altra contendente del pappagallo. Una signorona alta e robusta, che sta là solo perchè i nipoti non si fidavano a farla vivere da sola con una badante. Avevano paura che se la mangiasse, dicono.
Celestina cammina per il piano tutto il giorno, curva curva e con il viso truccatissimo, bianco di fard, occhi bistrati e rossetto brillantissimo. Stringe il rosario e ogni passo è una preghiera, dice lei.
Che fastidio potrebbe dare, una pia donna così devota?
Nessun fastidio, se non fosse che le preghiere le grida con la sua voce stridula, e cessa qualche minuto solo quando don Alberto va in visita il mercoledì pomeriggio.

Poi ce ne sono altri, tanti altri, chiusi lì dentro a girarsi i pollici e guardarsi Maria de Filippi.
E sì che molti di loro sono coetanei, a volte perfino più giovani, di personaggi che, per esempio, a 72 anni suonati vanno in discoteca e si circondano di ragazze ex spogliarelliste o reduci dell'Isola dei Famosi.

domenica 15 marzo 2009

Mary The Hairdresser & Lapo Gianni De Ricevuti





La parrucchiera Graziella si è fatta rifare completamente il negozio.
Fino a un mese e mezzo fa, quando entravi da "Graziella ti fa Bella" ti trovavi in una semplice salone da parrucchiera: a sinistra le poltroncine d'attesa con "Oggi" e "Novella-di qualche millennio" in allegato, davanti a te il mobile con i prodotti in vedita, a destra le poltroncine da taglio e lavata di capo.
La Graziella, poi, era una classica sioretta cinquantenne consapevole del mezzo secolo che aveva alle spalle.
Allegra e grassottella, si è sempre data alla ciacola con incredibile facilità e, non avendo potuto studiare da giovane, quando pontifica con le clienti l'unico argomento in cui dà una vera opinione di cui era sicura sono le creme, gli shampi, i tagli.
Per qualsiasi altro argomento: "ah, mi no so che dirve, no go mia potuo studiar come voialtre".
E' simpatica, la signora Graziella! Discreta e a volte perfino timidona. Mai avrei pensato che potesse esisterne una, di parrucchiera così.
Tempo fa in negozio è apparsa sua figlia, MariaGrazia, trent'anni ora e trenta parole lette in tutta la sua vita. Una cima, insomma.
La Graziella sola sa quanti improperi e insulti si sono sentiti da clienti alle quali si era dedicata MariaGrazia!
Tinte sbagliate, ciuffi accorciati brutalmente, frangette da bambina a signore ottantenni venute per una semplice spuntatina, in poche parole un disastro. Semplicemente la rgazza non ci arrivava, per lei tutto era molto relativo e di insignificante importanza rispetto la chiacchera a cui si stava dedicando.
Al telefonino.
Sempre, sempre, sempre a telefonino.
Tagliava i capelli con il telefonino incollato all'orecchio, tingeva, spruzzava lacca, asciugava, lavava, tutto con il telefonino, strepitando a voce talmente alta da rendere partecipe delle sue conversazioni perfino la signora Irma, che abita due piani sopra il salone. E dopo undici anni di onorata carriera persiste a farlo.
A parte questi picoli inconvenienti, però, la MariaGrazia non aveva mai fatto particolari danni.
Non aveva mai espresso la propria personalità, per dirla così.
Cosa che ha iniziato a fare qualche mese fa, dopo il nefasto evento.
Il suddetto è stato il leggere "Oggi" e notare le varie vip italiane nelle pagine patinate.
Ha deciso di diventare come loro.
In quanto a cervello, la situazione era già sistemata, mancava l'aspetto.
Diciamocelo, MariaGrazia non è quesa gran bellezza.
Un naso come il suo lo noti anche con la nebbia, per dire.
Quello ce l'ha da quando era piccola, ma ora ha iniziato a fare la fighetta, ed è diventato veramente difficile non vedere i capelli, tinti fino ad assumere un colore fluorescente.
Tirata com'è, poi, ti sembra di vedere un manichino in movimento. L'espressione e l'attività mentale sono le stesse, gli indumenti anche.
Ha deciso di essere come le vips, e per essere come loro deve essere cool.
Il look era stato rinnovato.
Ma il salone della mamma non era certo cool.
E dunque pressa, pressa, pressa con continue richieste, alla fine la Graziella ha deciso di cedere, e di permettere la ristrutturazione.
Un mese e mezzo di lavori martellanti e perpetui, il salone che sembrava un paziente in convalescenza dopo un grave incidente, fasciato e bendato di reti e teloni, tutto in ristrutturazione, un'intervento di chirurgia plastica completo.
Tre giorni fa ha riaperto.
Ha cambiato nome: "Mary's the vip's hairdresser", stampato su un'insegna luccicante e ammiccante che brilla sopra l'entrata.
Le finestrone sono state tramutate in intere pareti di vetro, con stampate foto varie della Mary in dimensioni spropositate.
All'interno, un bianco accecante ti circonda, dalle poltroncine in pelle ai prodotti esposti.
Qualche macchia di colore brillante spunta qua e là, fluo in pendant con i capelli della Mary.
Carino, ma per uscirne con la vista ancora sana devi usare gli occhiali da sole.

Oltre al rinnovamento estetico, il rinnovamento è pure degli argomenti.
Non più le ricette dei tortelli alla cipolla o delle castagne con la panna, l'argomento ora è solo ciò che è cool, la vita, morte e miracoli dei vippppps più in voga, il computer, l'inglese!! L'inglese, la lingua del futuro, infarciamoci i discorsi, mettiamo lo slang, inseriamo l'accento, buttiamoci dentro tutto, che fa fiiiigo.
Ricordo che la Mary non ha questa gran testa, ha fatto le medie e il biennio della scuola per parrucchiere.

L'altro giorno sono andata a spuntarmi un po' i capelli.
Mentre la Graziella operava sulla mia chioma (mica mi fido di sua figlia!), ascoltavamo quello che diceva la Mary al telefono.
"E allora ti dicevo, sì... Cioè, ma Lapo con il trans, te lo ricordi ancora anche tu, vero? Che look trash che aveva quella... Ma dai...., Sìì, tipo, non so, ma i suoi hanno proprio sempre avuto un buon gusto... Io questi nomi inglesi proprio li amo, tipo, Christian. O Thomas! Ma Lapo non mi piace tanto, troppo straniero, mi sembra quasi tedesco."

Memorandum:
"Guido, i' vorrei che tu e Lapo ed io...."
Dante Alighieri, fiorentino e quindi italianissimo, scrive questo sonetto tra la fine del 1200 e l'inizio del 1300, riferendosi al suo amico Lapo Gianni de Ricevuti.
In quel periodo non mi sembra ci fosse ancora la moda di importare nomi esteri.

venerdì 13 marzo 2009

Panna





Un giorno è arrivata, spaurita e scheletrica, un fantasma sconvolto.
E' arrivata, da dove non si sa, e si è imboscata nella siepe dei fiori di mia mamma -ranuncoli gialli e nontiscordardime-, eclissandosi sotto un cespuglietto. Era estate, allora.
Da una macchia turchese spuntava soltanto qualche ciuffo di pelo latteo, ma a campo libero, quando tutti rientravano in casa, vedevi una zampa che osava uscire dalla tana, un accenno di coda si muoveva lentamente, poi ecco un passetto, e un altro, addirittura un salto fuori dal riparo, quindi appariva: una macchia di luce, un gomitolo di lana bianca, spettro, ombra, teiera zamputa.
Piccola, timorosa, incerta e quasi barcollante in un territorio nuovo si avventurava verso la ciotola piena -eccole, le tanto desiderate crocchette-.
Sfidando le ire della Signora gatta -undici anni e un miagolio con timbro inascoltabile, padrona indiscussa del territorio da tempi immemori- rubava un boccone per divorarlo lontana dalla casa, tornava e ne prendeva un altro, altri due, tre, quattro, tornava e scappava, si saziava di fretta e si rituffava nel cespuglio al minimo rumore dalla porta -umani!-.
E il giorno dopo la stessa, la settimana dopo uguale, il mese dopo la scena era la medesima.
Ma lei era cambiata, giorno dopo giorno, impercettibilmente, finchè un giorno non si è presentata.

E' arrivata, sicura e tonda, la pancia sferica e ondeggiante al ritmo dei passi affrettati.
E' arrivata e si è accovacciata nello zerbino davanti all'ingresso -era arrivato l' inverno.
Si è accomodata, e così ha cominciato a fare ogni giorno, diventando indubitabile inquilina del tappetino.
Dalla palla che formava dormendo -zampe nascoste e coda attorno-, si distingueva appena il muso, piegato sul petto, ma quando bussavi leggermente sulla porta, dall'interno, lei spalancava gli occhi e si girava.
Ti guardava.
Ti perforava, con quelle iridi gialle, con quella profondità abissale, sembrava chiederti cortesemente se ti servisse qualcosa.
Muoveva le orecchie appena, arricciava il naso, spostava la coda, magari perfino si alzava e si sedeva, composta, ma non mollava un attimo: le sue pupille erano fuse alle tue, si annodavano in uno sguardo sicuro, penetrante, lei ti guardava dentro -lo giuro-, lei ti guardava dentro e ti leggeva come un libro aperto -era umana, sì, umana, quella gatta era umana- e tu lì, inebetito, ti lasciavi decifrare da quegli occhi -forse era una strega, una strega trasformata in un gatto / ma le streghe si trasformano in gatti neri e lei era bianca, bianca come il latte, come la carta, una nuvola, piume degli angeli, panna / era un Angelo, allora, sì, un Angelo traformato- cercando di guardarle dentro anche tu, cercando di capire chi fosse in realtà, ma c'era il vetro in mezzo -stupida lastra trasparente- che ti specchiava la vista, gli occhi rimbalzavano sul nulla, e lei, perfettamente immobile -forse solo l'orecchio, là, si agitava appena, o la punta della coda, ecco-, sorrideva.
Era immobile, non cambiava una virgola, neanche la bocca, ma sorrideva.
Gli occhi brillavano, i baffi ridevano, ogni singolo pelo vibrava di una gioia pazzesca, era quasi spaventosa come scena -tu completamente in balia di una gatta che ride-, e allora iniziavi a sorridere a tua volta, o magari ridevi proprio.
Ci parlavi, addirittura.

Quel primo giorno in cui è venuta da me, abbiamo parlato a lungo, guardandoci attraverso il vetro.
Immobili, due statue di marmo davanti e dietro la porta, una davanti all'altra.
Mi conosceva da sempre, ma erano anni che non ci parlavamo.
L'ho guardata, lei mi ha letto dentro fino all'ultima emozione.
Da quel giorno abbiamo deciso che saremmo diventate amiche.

giovedì 12 marzo 2009




E' il loro primo concerto.
La pianista, giovane, una nuova uscita dal conservatorio, si inchina, ringrazia il pubblico con un sorriso gioioso, esce, rientra, esce, rientra ancora, concede un bis, e poi un altro, un altro ancora.
E' un successo, il suo primo vero successo.
La signora la guarda dalla platea, si sporgerebbe in avanti per abbracciarla, quella ragazzetta che le ha saputo donare tutte quelle sensazioni in una sola ora e mezza, quella bambina che sembra semplice e normale e che solo avvicinandosi a quello strano animale nero e bianco con i pedali, tira fuori una grinta e una dolcezza degne della più potente regina al mondo.

Dopo la performance la pianista si ritira in camerino, e poi, cambiata, tornata quella di sempre, eccola fuori, alla ribalta, a firmare autografi in un bagno di folla, nella stradina dietro al teatro, fuori dal camerino.
La signora le si avvicina, il viso illuminato di stupore e divertimento per quel concerto così insolito, capitato quasi per caso -un'amica le ha chiesto di accompagnarla e lei non ha saputo dire di no, e poi, che diamine, a settantacinque primavere bisogna pur andare almeno una volta a un concerto di musica classica-.
Prima dello spettacolo si sentiva così fuori posto nel foyer lustro e luminoso, in mezzo a tutti quei tromboni in frac che pontificavano di Ravel, Schubert, Rachmaninoff, -ma chi saranno questi, mai sentiti, ma una volta non parlavano di Mozart e Beethoven?- e paragonavano esecuzioni di questo e quello, le sembravano tanti sommeliers, che assaggiano vini squisiti e pontificano sulle piccolezze, sulle leggere sfumature, su ogni cosa per mostrare e ostentare la loro dottaggine ed esperienza sull'argomento. Alcuni le parevano così finti, avviluppati in un panciotto troppo stretto, la pancia debordante, il barbone da filosofo.
Ma poi, durante il concerto, il disagio è sparito, si è dimenticata di ogni cosa -foyer, dotti, brochures, scalette, tutto-. La musica l'ha avvolta, portata via, ammaliata, e non l'ha abbandonata nel momento in cui si è sbracciata ad applaudire, le mani arrossate che bruciavano, gridando "brava! Brava!" con tutta la voce rimastale, un po' spezzata per la commozione dell'ultimo brano.

Estasiata, per parlare alla ragazza ha seguito un labirinto di corridoi, camerini, retroscena, l'hanno fermata e han detto aspetti, gentilmente, faccia il giro per il retro, qui non si può passare.
E' uscita, stava nella stradina del retro, tra bidoni della spazzatura, macchine ed altri fan in attesa.
La ragazza firma autografi, se la trova davanti: la guarda, le sorride.
-"Signorina, buonasera, mi scusi.. La volevo ringraziare dal più profondo del cuore, è il mio primo concerto e non mi sono mai sentita così prima, è .."
Non trova le parole, impacciata: tutto quello che sentiva non era esprimibile, tutta quella gioia mischiata a amore, e passione per la nuova scoperta, e tenerezza a guardarla mentre suonava - le ricordava sua nipote-, e allegria e tristezza, le è parso di morire e vedersi tutta la vita davanti, ogni nota ricordava una persona.
La ragazza la guarda ancora, il sorriso si allarga, capisce come si sente. E' strano, a vent'anni, guardare una nonna e riconoscersi, vedere nei suoi occhi lo stesso che si provava da piccoli, quando il pianoforte era quello strano mobile del salotto che le cantava ninne nanne quando non dormiva, e canzoni allegre ai compleanni, e poi faceva tanti rumori, felici o arrabbiati, dipendeva da chi sedeva là davanti, chissà, forse il pianoforte si arrabbiava se stava suo fratello, quel brigante, e se c'era la mamma era contento e cantava dolcemente.
-"Ma la prego, mi tolga una curiosità.. - la voce della signora la fa tornare nella strada dietro il teatro- Come fa a schiacciare tutti quei pulsanti assieme, e così velocemente? E' la prima volta che vedo, sembra impossibile..."
"Signora, questo è tanto studio e allenamento, ma guardi, sembra impossibile anche a me, quando leggo io giornale e vedo che tanti in parlamento riescono a fare la stessa cosa...."

domenica 8 marzo 2009

Il laboratorio linguistico del liceo






Al liceo dove vado io, c'è un laboratorio linguistico.
Piccolo, un po' scassato, con poche postazioni, ma pur sempre laboratorio linguistico è.
Fino all'anno scorso il comando assoluto dell'aula era detenuto dalla prof di francese, che quest'anno ha dovuto cambiare scuola per un trasferimento, così ora è in balia del nuovo tecnico.
Il laboratorio era adornato da poster e cartelloni, locandine e manifesti, colorato e accogliente come poche altre aule del liceo sapevano essere, nelle lezioni là dentro ti sentivi in una piccola Francia, allegra e tecnologica, pronta a cacciarti nel cervello una serie di nuovi vocaboli francesi che ti avrebbero perseguitato per tutta la mattina, mentre cercavi di capire da che diavolo di idioma fossero tratti, perchè quello, poco ma sicuro, francese non era.
In ogni caso, quest'anno, per la prima volta dopo il cambio di prof, siamo rientrati.
Il nulla.
Non più un poster, non un cartellone, una scritta colorata.
Muri spogli e grigi ci attendevano, svutotati da tutto il colore e il francese che li adornava.
Dopo il primo shokkante impatto ci siamo seduti ai nostri posticini, davanti agli schermi dei nuovi computer (che la precedente prof si sia portata via non solo i poster [che comunque forse sono ancora lì, arrotolati e sopra un armadio, ma pur sempre lì] ma anche gli schermi?), e abbiamo diligentemente aspettato di cominciare la lezione.
Abbiamo aspettato per un'ora intera.
Il laboratorio era impazzito, straziato dalla malinconia per la precedente detentrice del potere.
Non c'era più una cuffia, uno schermo, un computer che seguisse le istruzioni digitate dalla nuova prof.
Schermi che lampeggiavano e si bloccavano quando decidevano loro, lettori di cassette che si aprivano a ritmo, creando un clac-clac che di inquietante avevano non poco, fischi che partivano da non si sa quale radio nascosta, le cuffie e i microfoni che mettevano in comunicazione alunni a caso, cambiando interlocutore ogni pochi minuti.
Ragazzi, mai fatta tanta vita sociale come in quell'ora.
Ho chiaccherato con tutti i membri della classe, un po' per uno non fa male a nessuno.
A nessuno tranne che al povero nuovo tecnico di laboratorio, Matteo, arrivato quest'anno giovane ed inesperto dopo sei anni passati sui banchi dell'itis.
Un tecnico così coccolo non era mai capitato a nessuno!
Ma povero giovine, oltre all'essere coccolo non capisce una dannata acca di informatica, e l'unica cosa che è riuscito a fare è stata staccare la spina e spegnere il computer centrale.
Lasciando accesi tutti gli altri, che hanno continuato la loro anarchia senza fare una piega.
La prof nuova era esasperata, la classe in giubilio e nel caos!
Che sia stata la prof di prima, che in un impeto di rabbia e invidia verso la sua sostitutrice, abbia deciso di renderle la vita impossibile tranciando qualche cavo e cambiando qualche comando?
O che abbia lanciato un incantesimo?
D'altronde, lo diceva pure lei che aveva poteri paranormali...

venerdì 6 marzo 2009

Breve storia di coppia






Lui era fine e tagliente, lei brillante e pungente.

Si incontrarono la prima volta in un ristorante di lusso, a Parigi.

Amore li appaiò come coltello e forchetta.

mercoledì 4 marzo 2009

Dialogo con Mamma



Corridoio del primo piano, casa mia.
Il caos regna incontrastato.

"Mammaaa, che fai?"
"Riordino!"*

Tecnica numero uno per riordinare della mamma: fare ancora più casino, buttare in terra tutto quello che c'è sui mobili, svuotare qualsiasi contnitore, e poi iniziare a prendere dal mucchio elemento per elemento, riponendo ogni cosa nel ripiano adeguato.
Lei stava facendo così con le scatole dell'armadio: tutte fuori e poi si incastrano a mosaico.
Giacchè la confusione c'era già, mi sono messa a frugare tra le varie scatole.
Dentro una custodia, riposti come sardine, dei telefoni cordless vecchi, quelli della Swatch in plastica semi trasparente. Che beeelli...

"Mamma, ma perchè i ze qua?"
"No sta pensarghe, i ze tuti scasai" (subito aveva inteso il doppio fine della domanda.. "Se non sono rotti posso prenderli?")
"Ma parchè no i funsiona?"
"Prova domandargheo, magari i te risponde, zà che i ze teefoni...!"**


**
"Mamma, ma perchè sono qua?"
"Non pensarci nemmeno, sono rotti!"
"Ma perchè non funzionano?"
"Prova a domandarlglielo, magari ti rispondono, già che sono telefoni..."