martedì 24 novembre 2009

Chaos




Sì mamma torno tra/ hai preparato il pranzo?/sì, sono sull’autobus adesso, ma c’è un casino/ scusi/attento!/il mio piede!/ ehi!/ giovanotto, mi lascerebbe/ si scende/ veloce, dobbiamo scendere a questa/ ma guarda che razza di cappello/ un collo lunghissimo/ sale!!/ ehi!

Il caos.

Sull’autobus –linea S- regna il caos: ora di punta, borse della spesa, studenti, valigette, fogli e appunti, biglietti scivolano dalle tasche, dalle mani, è anche caldo, gente sudaticcia, persone fradice, puzza, profumo del tramezzino che una ragazza sta mangiando –una borsa sportiva ai suoi piedi, con una mano appesa alla maniglia, tuta, pare stia tornando dalla palestra-.

Un vecchietto seduto, giornale in mano, si guarda attorno, un po’ seccato da tutta questa confusione.

Un ragazzo balza sull’autobus, di fretta.

Si insinua tra le persone, alla ricerca –vana- di un posto a sedere. Schiva una sporta colma di verdure, si acciacca il fianco sinistro sbattendo su uno zaino imbottito di libri, vaga faticosamente per il bus –linea S, ora di punta- realizzando che il posto non c’è. Ma ancora una speranza, solo una speranza ancora: quel vecchietto, là, pare si stia preparando a scendere-.

Si precipita, spintonando, una mano a reggere il cappello –strano, il cappello: un lungo nastro che pare un cordone a decorarlo, colore insolito, materiale particolare, appollaiato in cima a una testa che pare vacilli dall’alto di un collo di lunghezza infinita-, l’altra allungata già verso il posto, pronto a balzarci sopra, sedersi, ah, riposo.

Si arresta, si gira, scocciato

scusi sa

all’uomo alla sua destra, cappotto formale, valigetta seria, cappello banalmente ordinato in cima a una testa pettinata e ben salda sull’estremità di un collo taurino.

cosa vuole

lei mi ha urtato

prego?

lei-mi-ha-urtato, volontariamente, oserei aggiungere, e mi ha colpito a un fianco

lei si sbaglia

no, l’ho vista: mi ha visto arrivare, ha fatto un passo indietro con

finta aria distratta,

e appena sono passato mi ha infilato un gomito tra le costole!

Guardi, signore, forse lei si confonde

No, caro mio! Mi hai appena cacciato un tuo stramaledetto

gomito tra le costole.

Ascolta, amico, dammi un motivo per cui dovrei piazzarmi su un autobus

A fare attentati alle costole di ragazzini che sgomitano per cercare un posto, e

No, ascolta tu “amico”: mi hai urtato, mi hai fatto male Abbia

perlomeno la buona grazia di chiedere scusa!

Ma neanche per sogno!

Lei è un cafone,

mi chieda scusa immediatamente!

Senti: tu adesso taci, chiudi la bocca, la pianti di strepitare, d’accordo?

O io prendo il tuo collo spaventosamente lungo e lo annodo per bene a quel

Lampione laggiù, intesi?

Il bus frena. Il vecchietto si alza lentamente, il suo giornale sottobraccio, cappello in testa –senza cordoni- giacca in tweed e pesante montatura di occhiali.

Il caos nel bus si ferma. Nessuno si muove o parla. Silenzio.

Ha un’aria pacifica punzecchiata da uno spruzzo di divertimento nascosto nella saggezza degli occhi. Guardava lo scambio di opinioni dei due, spassandosela un mondo. Forse più che la discussione lo faceva ridere il ragazzo –uno strano ibrido di giraffa e uomo con un cappello strambo appollaiato in testa-.

Il mondo è ghiacciato. Immobilità.

Silenzio, più silenzio che prima. Il tempo si è fermato. Il vecchio sorride.

Si fa spazio tra la gente, con la calma pacifica abituale. Ora scenderà, appoggiandosi alla porta del bus. Si guarderà intorno –l’autobus parte, e a bordo tutti si risvegliano, un secondo e niente è successo, il bus non si è mai fermato, il caos, la confusione, alta voce, tutte le voci parlano di una voce sola, tutti i rumori rumoreggiano, urla, le telefonate, i cellulari che trillano, il caos- e andrà in cerca di una panchina al parco –cerca solo la tranquillità-. Non dovesse trovarne, si sposterà verso casa –giusto attraversare l’incrocio, girare a sinistra e dopo cento metri è là- e starà in salotto, nel suo divano, o forse in terrazzo –quarto piano senza ascensore, ma ormai l’abitudine ha superato la vecchiaia, le articolazioni consumate non temono le scale, un terrazzino modesto ma grazioso, annaffiatoio verde di fianco alla porta, un cinque vasi con piantine e fiori a decorare gli angoli, poltrona in vimini da casa delle vacanze /cuscino bianco/ regna nel mezzo del balcone-.

Scende, libera il posto.

Appena scongelato dal momento, il giovane abbandona la discussione senza aggiungere un’altra parola e si lancia a sedere, abbandonando l’uomo che gli diceva –che gli urlava, a dirla tutta, ma fa niente –, dimenticando la discussione, e dopo un momento è seduto, finalmente, seduto e salvo dall’energumeno che minacciava di torcergli il collo.

Appoggia la testa al finestrino e infila le cuffie dell’ipod. Stanchezza.

Sono passate due ore. Il vecchietto torna dal parco, cammina verso casa, ancora la solita calma ad avvolgerlo, ad accompagnarlo un paio d’ore passate al parco. Il giornale è ripiegato sotto il braccio, stropicciato per l’impeto con cui il suo lettore girava le pagine, stizzito e imbufalito da politici e un mondo che non gira come dice lui.

Attraversa la strada e scorge di striscio il giovane –un ragazzino, praticamente-, sempre il collo lungo, sempre il cappello barcollante. È con un amico, particolare anche lui, un foulard di seta di al collo –decorazioni psichedeliche-, giacca fucsia e pantaloni verde bottiglia che vanno a nascondere il gambale di stivali lucidi da cavallerizzo. Testa nuda. Collo normale.

Ma sì, devi allacciarlo meglio, guarda un po’ che disastro…

Ma dove?

Ma guarda!

Ma cosa?

Ma il bottone, sciocco!

Ma perché?

E’ storto, amico! Devi raddrizzarlo, guarda,

così – ah, caro mio. Tu e la moda non avete proprio niente a che fare.



**********

Questo post è nato per un compito di francese assegnato a scuola. La mia classe partecipa a un concorso organizzato dall'Alliance Française Italie in cui si deve scrivere un testo come "prolongement [degli "Esercizi di Stile ] à la manière de Raymond Queneau". Il mio esercizio è questo -sarebbe un "chaos"-, poi l'ho dovuto tradurre in francese, ma la prima a non capirci niente leggendolo tradotto sono io, quindi non lo posto.

Ecco, la nota era solo per dire che non l'ho copiato da qualcuno se non da me stessa, dato che c'è di mezzo il concorso eccetera eccetera.

In ogni caso, questa mi pare una competizione interessante, qui il sito dell'Alliance Francaise http://www.alliancefr.it

e da qualche parte parlano anche del concorso.

domenica 25 ottobre 2009

Cibo Amore Mio



Un giorno, nel mezzo di un lungo giro di shopping con conseguenti lamentele riguardanti taglie, misure, pancia, aderenze, strettezze, fianchi, cosce, debordanze posteriori e anteriori e infinite promesse di mettermi a dieta, un amico portato al limite dell’esasperazione mi suggerì una tecnica per non cedere alle golose tentazioni che il cibo languidamente mi lancia e alle quali costantemente cedo.
Il segreto, mi disse, consisteva nel rilassarmi ad ogni stimolo di fame, e nell’ immaginare vividamente il cibo del desiderio. Una tavoletta di cioccolato, per esempio, squadrata e perfetta, liscia, dolce e appetitosa, profumata e irresistibile. Immaginarla per bene, dunque, e pensarmi mentre per saziare ogni mio desiderio la agguanto, pronta a gustarla lentamente quadretto dopo quadretto, saziandomi di dolcezze e calorie, avvolta dal benessere intimo e rilassante che solo il rompere una dieta di nascosto accoccolata sul divano può esprimere degnamente.
Il trucco era poi di convincermi che al primo boccone il sapore di tanto desiderata grazia fosse qualcosa di disgustosamente insopportabile, qualche spauracchio della tavola, qualcosa di incoraggiante al vomito, per dire –“cosa di fa schifo, ma proprio schifo schifo che non riesci a sopportare?” “fegato” “bene, allora immagina fegato”- . In tal maniera il cervello si convince che il sapore della cioccolata è in realtá quello disgustoso del fegato, cosí la voglia passa.
Da quel giorno ho sperimentato, provato, tentato, e devo orgogliosamente esprimere la soddisfazione di aver raggiunto un risultato. Purtroppo, però, va aggiunto che qual risultato non e’ esattamente quello che avrei dovuto ottenere dopo cotanto esercizio e impegno psicofisico.
Adesso amo il fegato.

giovedì 8 ottobre 2009

Sasso II




"A dirla tutta, quel sasso non era veramente questa gran cosa. Era un pezzo di pietra qualunque. Viveva la sua normale vita da sasso, ogni tanto finiva in una pozzanghera, oppure capitava che sprofondasse sotto terra, o veniva lanciato da qualche ragazzetto balordo. Era un sasso normale: senza crepe ma non liscio, senza bozzi ma non perfetto.
Era anche alquanto noioso, se devo proprio aggiungere, e vorrei anche rendere noto che…”
Sasso, taci. Abbiamo detto che sei speciale?
"...Si"
Bravo, quindi sottoponiti alle nostre moine, chiudi il becco mettiti l’animo in pace, dacci delle comuniste staliniste, fa’ quello che ti pare, ma non azzardarti ad aprir bocca di nuovo.Lasciati lodare, sii meno duro – ok non è la parola più adeguata per un sasso – con te stesso.
Ci siamo noi a raccontarti, ora.

Dicevamo, il sasso è speciale.
Lo guardi, effettivamente non noti nulla di particolare.
E’ ben costruito da dentro, solido fino in fondo, senza imperfezioni, saldo e concreto come una piccola roccafotrte.
Ma un sasso comune, sotto questa analisi superficiale, un sasso come tanti suoi compagni sassi di questo sassoso mondo.
Se qualcuno ricorda, però in un certo racconto, una volpe dice a un piccolo principe che l’essenziale è invisibile agli occhi. E chi a questo mondo è mai riuscito a vedere un pensiero? Chi è mai riuscito a cogliere, anche solo di sfuggita, la famigerata nuvoletta che esce dal cervello con il pensiero disegnato dentro?
Nessuno.
Ma quanti di noi hanno saputo indovinare i sentimenti di una persona basandosi su quello che aveva dentro, nascosto alle nostre pupille?
Con il nostro sasso la storia è proprio quella: insospettabile e invisibile, da lui uscivano continuamente pensieri, osservazioni, ragionamenti silenziosi, quantopiù invisibili agli occhi fosse possibile.
Il nostro sasso pensava. – "e capirai" / sasso, zitto./-
Se n’era acorto stupidamente, in un momento alquanto scomodo, mentre un ragazzo lo raccoglieva da terra per scagliarlo contro una vetrina. Era in quel periodo in cui saso viveva in città – bei tempi- ed era il’68. Studenti si riversavano nelle strade a manifestare, e proprio quel giorno – 24 settembre 1968 – un corteo attraversava le strade al ritmo di cori e sventolamenti di bandiere. Un ragazzo –sciocco- preso dall’impeto ribelle, aveva raccolto Sasso e, dopo averlo palleggiato qualche minuto, si stava preparando a scagliarlo.


Fine….per ora

martedì 6 ottobre 2009

Sasso




Mentre sono qui agli Antipodi, tengo una corrispondenza sfrenata con mia nonna. Più o meno ogni giorno mi arriva una sua lettera, e tra un abbraccio scritto e la cronaca di Lanzano, è cominciato un gioco a puntate. La nonna ha iniziato...

Ho trovato un sasso, grosso come due pugni, levigato dall'acqua che in certi punti ha insistito di più ed ha perciò una rientranza. Non è un sasso come gli altri: questo ha una vita, e si vede.

Oche (parte II)



Dopo l’incidente, l’oco superstite non si riprese più. Era solo, e non riusciva a capacitarsene; la sua ombra, il suo amico, il suo compare, compagno, fratello, era sparito, e lui ora vagava senza meta per il giardino, starnazzando per poi, spaventato al non udire alcun eco o risposta, tacere e chiudersi in una muta desolazione. Aveva iniziato a passare le ore fissando il cancello automatico, scagliandoglisi contro con tumultuosa furia ad ogni suo movimento. Il perché lo facesse, è un mistero la cui risposta non è data a sapere.
Era diventato la morte su due zampe palmate, e depresso ciondolava inerme e senza scopo, se non quello di distruggere tutto ciò che attraversasse il suo cammino –ovviamente i membri umani della famiglia erano inclusi in ciò che disturbava la sua quiete tormentata-.
Per cercare di risollevargli il morale e per evitare che si suicidasse buttandosi in piscina anche lui, i miei gli comprarono un nuovo compagno: un’ altra ochetta gialla e batuffolosa allietò il giardino con i suoi pigolii e ballonzolamenti sbilenchi.
Nei giorni a seguire l’arrivo, la piccola palmata era scortata ovunque da un bipede dotato di pollice opponibile e bastone da pastore. Era troppa la paura che il terminator alato decidesse di compiere un atto omicida e distruggere la piccola senza lasciarne traccia, così a turno seguivamo il giovane paperotto nelle sue esplorazioni in giardino, pronti a difenderlo strenuamente e imporci tra lui e l’oco psicopatico pur di salvarlo –e credetemi, per mettersi tra quella specie di tritacarne con il becco e la sua preda è dimostrazione di strepitoso coraggio-.
Ma le nostre erano paure infondate: Lui, immerso nella nebbia della sua disperazione, non lo badava neanche di striscio, limitandosi a fissare dritto avanti a se, attento solo al cancello –sempre che non facesse movimenti sospetti-. Gli unici momenti in cui dimostrava un minimo interesse nei confronti del nuovo venuto era quando lo beccava ferocemente sulla testa, tranciando alla radice ogni tentativo di avvicinamento.
E in questo il papero tristo dimostrava un certo masochismo oltre a un’idiozia di fondo, dato che dopo due giorni non aveva ancora capito che se si azzardava a sfiorare il piccolo, immediatamente gli sarebbe arrivata una bastonata dal custode di turno. Ma si sa, le oche son oche, che ci possiamo fare.
Dopo breve tempo, però, la situazione cambiò: il bipede e pennuto carabiniere temuto da ogni cancello presente nel giardino decise di prendere come successore il suo giovane simile, permettendogli di avvicinarsi e farsi prendere sotto la sua ala protettiva senza rischiare di essere crudelmente assassinato. Passeggiava con lui, raccontandogli delle insidie della vita e discutendo degli interrogativi dell’universo, mentre il giovane palmato gli trotterellava dietro per tenersi al passo. Li chiamammo Socrate e Platone.

Un giorno non troppo tempo dopo l'arrivo del suo seguace, Socrate morì avvelenato –e tutto torna-, e il giovane Platone rimase solo. Per evitargli la depressione in così tenera età, i miei portarono precipitosamente a casa un quarto pulcino.
Maschio anche lui, come si scoprì in seguito. Abbiamo fatto l’amplein: quattro su quattro ochi maschi, e, a dispetto dei nomi, stupidi fin nel profondo del midollo. Mai viste cose simili.
Comunque, il piccolo -subito chiamato Aristotele, tanto per continuare la serie- era arrivato e si era velocemente ambientato con il nuovo amico. Entrambi i bipedi erano ancora in giovane e giallo piumata età e, evidentemente, necessitavano di una figura materna o paterna che li guidasse nella retta via. Sembravano un po’ sbandati e sperduti mentre la notte si accoccolavano l’uno vicino all’altro sentendosi –ne son sicura- deleritti e abbandonati in una terra abitata da fantasmi.
Pare però che mia mamma in quel periodo avesse cominciato a fargli “pio pio”. Letteralmente.
Voglio dire, ogni volta che usciva di casa –e mia mamma, santa donna, esce di casa con una frequenza di due volte all’ora per scarrozzare la figliolanza- e percorreva in macchina il viale nel giardino, cacciava la testa fuori dal finestrino e con un falsetto perforante lanciava il simpatico richiamo. Pio pio, e pio pio, e dagli con i pio pio, i pennuti, felici di sentirsi finalmente chiamati affettuosamente da qualcuno, si convinsero che quello fosse il verso materno.
Il punto è che non iniziarono a seguire mia mamma. Magari.
Iniziarono a seguire la macchina di mia mamma, dalla quale la genitrice si sporgeva per lanciare le gioiose grida; la somiglianza tra una Toyota e un’oca del Campidoglio, devo dire, mi sfugge tutt’ora, ma gli oscuri meccanismi che regolano l'intricata mente delle oche sono qualcosa di cui non sono minimamente esperta, e che quindi non pretendo di riuscire a comprendere. Comunque sia, i gentili richiami che mia mamma mandava ai suoi protetti con le ali valsero allaToyota la perenne devozione dei due.

La scena si ripete tutt’ora un infinito numero di volte al giorno –tante quante le volte in cui mia mamma esce di casa-, ed è la seguente:
non appena i due pennuti avvertono qualche vibrazione del terreno che possa fargli capire che c’è una cosa con le ruote in avvicinamento, si bloccano e volgono i lunghi colli verso il cancello. Attendono.
Se la macchina sta uscendo dal giardino, si limitano a zampettarle incontro prima che il cancello si apra e la inghiotta –di solito vince il cancello-, per poi uscire anche loro, un po’ spiazzate dal vedere che l’automobile corre molto veloce, rassegnarsi e, se il cancello si è già richiuso, sedersi diligentemente ad aspettare la mamma.
Se la macchina sta arrivando, invece, il tutto diventa più scenografico: dopo essersi bloccate, la riconoscono immediatamente, anche senza vederla. Non appena il cancello automatico comincia la sua lenta apertura e il muso dell’automobile viene scorto, i due pennuti entrano i fibrillazione e corrono ad ali spiegate, accompagnando la corsa da un festoso starnazzare di piacere, ad accogliere la mamma di ritorno.
E questo lo fanno anche se sono dalla parte opposta del giardino. Generalmente è meglio che siano ben lontane, perché se sono già nelle vicinanze, comode comode si piazzano davanti alla macchina, già pronte a farle compagnia e impedendole di ripartire senza stenderle.
Corsa fino al cancello, comunque, è il punto numero uno. Punto numero due consiste nell’accompagnare la mamma a casa: tenendosi alle calcagna, ricominciano la corsa a velocità folle, ali sempre spalancate che talvolta concedono lo spiccare in volo –basso, però- , vociare con volume al massimo. E mia mamma che guida, rassegnata e quasi pentita. Provando a riparare al danno, non pigola più dal finestrino, ma tutto è inutile ormai: i due pennuti seguono perennemente e devotamente la macchina con la loro corsa forsennata fino al parcheggio, dove –punto tre, come si diceva sopra, fare compagnia alla mamma- le si stabiliscono attorno soddisfatte, becchettandola su tutte le fiancate per dimostrare il loro affetto.
Hanno anche dato il via alla simpatica operazione di levare –attaccandosi con il becco ad un’estremità e tirando con tutte le forze e l’ostinazione possibile- una rifinitura di gomma che penso servisse per attutire lo sbattere del bagagliaio. Grazie a questa loro privata occupazione, adesso la nostra macchina ha anche la coda.
Ovviamente, mentre circondano di affetto la loro genitrice quattroruote, circondano anche la casa di abbondanti scacazzamenti.

Ora i nostri Platone e Aristotele godono di ottima salute –perlomeno fisica, perché su quella mentale ci sono alcuni dubbi-, sono bianchi e panciuti ma bene in forma grazie agli sforzi olimpici che compiono ogni giorno, amano alla follia la loro mamma e, purtroppo, sono già troppo vecchi per essere messi in forno.

sabato 26 settembre 2009

Oche (parte I)



Sempre della serie “la mia famiglia ed altri animali”, anche se sarebbe più da dire “gli animali e la mia famiglia”, sono le oche Gina e Pina.
Approdarono nei giardini circa tre anni fa, o quattro, per il compleanno di mia mamma. Mi sentirei in colpa se non aggiungessi che tutto partì da una mia battuta. Se avessi tenuto la boccaccia serrata, a questo punto non avremmo di questi problemi. Comunque sia, non si può cambiare il passato: quando mio papà, indeciso sul regalo da comprare, mi chiese un’opinione, io dissi, data la passione di mia mamma per qualsiasi cosa riguardi i simpatici bipedi bianchi e dondolanti, “ma prendiamo due oche!”. L’avevo detto per scherzo, però.
Mio papà l’aveva preso sul serio, così il pomeriggio si precipitò all’allevamento più vicino a casa, comprò due pulcini gialli e li chiuse in garage, dentro una cassetta di legno perché non scacazzassero sulla sua preziosa moto Guzzi. Il mattino dopo, sveglia presto per sgattaiolare a riprendere i pennuti, agghindarli con rispettivamente un fiocco rosso e uno rosa e portarli sotto il portico, sempre nella loro cassetta.
Allo starnazzare sconosciuto, mia mamma si affacciò al balcone e vide due pulcini gialli e strapazzati che imploravano amore materno. Le si sciolse il cuore.
Gli inizi furono idilliaci: era estate, e i piccoli ci zampettavano dietro ogniqualvolta uno di noi uscisse in giardino, e pigolavano perché ci fermassimo ad aspettarli. Erano così buffi, mentre arrancavano tra l’erba sempre troppo alta per loro, e li osservavamo orgogliosi mentre ci becchettavano affettuosamente le dita quando gli porgevamo dei fili d’erba da mangiare.
Purtroppo presto arrivò l’adolescenza, e con questa si presentarono anche squilibri mentali che non si erano mai manifestati prima. Intanto non erano più i dolci pulcini piumosi e soffici, ma due ocotti di mezza taglia, spennacchiati e bianchicci per la muta delle penne, che sbatacchiavano le ali ancora troppo piccole correndo per il giardino. Era uno spettacolo tristemente comico vedere gli sforzi dei due piumati per levarsi in volo, e noi aspettavamo che il cambiamento si completasse per avere finalmente i due bianchi pennuti che mia mamma sognava.
Un giorno, mentre la muta non era ancora completa, mio fratello aveva portato le due oche a fare un giretto per il giardino. Sedutosi, aveva iniziato a porgere i consueti fili d’erba ai pennuti, quando improvvisamente uno dei due, spalancate le ali e fissato l’umano con sguardo vuoto e minaccioso, gli si precipitò contro beccandolo nel mezzo della fronte. E questo fu l’inizio.
Un altro pomeriggio, mentre passavamo un dopo pranzo all’aperto bivaccando al tavolo ancora apparecchiato, arrivarono i nostri due cani –sempre loro, sì-, che iniziarono ad azzuffarsi fraternamente per farsi un po’ notare. Immediatamente, una delle due oche che stava militando attorno al tavolo per controllare che l’ordine regnasse e interpretava magistralmente il ruolo di carabiniere, si precipitò a separare i due litiganti, beccandoli abbondantemente su testa e fianchi. Non ho mai visto i miei cani scappare con uno scatto così veloce, e sì che ho passato due anni a vedermeli fuggire da sotto il naso.
Da quel giorno, i cani avrebbero girato bene al largo e con la coda tra le gambe, guardandosi bene dall’ avvicinarsi alla coppia di piumati gendarmi che pattugliava notte e giorno il giardino. Quando i cosiddetti migliori amici dell’uomo se ne andarono per diventare esperti pet-therapisti, sono sicura che i due pennuti si sentirono smodatamente compiaciuti nell’aver eliminato dalla scena due dei concorrenti al controllo del giardino.
Nello stesso tempo, iniziava a rendersi chiaro che i palmati due non erano Gina e Pina come avevamo tanto sperato, ma Gino e Pino. Niente uova di oca, quindi, e niente nuovi pulcinotti allegramente pigolanti ad animare il giardino.

Con l’arrivo dell’autunno, l’inizio della scuola e il rientro nel tran tran quotidiano, le oche –pardon, gli ochi- iniziarono a trascorrere molto tempo da soli. Non avevamo più la possibilità di seguirli e accompagnarli in lunghe passeggiate all’aperto, e loro pian piano si dimenticarono di noi; ci rimossero dal loro piccolo cervello. Le nostre facce non significavano più niente per loro, nonostante ci vedessero quotidianamente, e questo significò la rottura del rapporto: ci identificavano come estranei, e come tali andavamo allontanati.
Ma questo è quello che penserebbe una normale oca. Le nostre, con il loro delirio di onnipotenza, pensavano che in quanto estranei andassimo definitivamente eliminati, e per proseguire nel loro intento ci puntavano a collo teso e ali spalancate, starnazzando in modo ben poco amichevole ogniqualvolta osassimo mettere il naso nella loro area di competenza. Il che significava ogni volta che si metteva il naso fuori di casa, perché le due pennute si erano bizzarramente convinte di essere padrone dell’universo.
Sfortunatamente non ci fu mai modo di farci riconoscere nuovamente come amici, e nonostante l’arrivo della primavera seguente e la nostra presenza sempre più assidua in giardino, le due continuavano imperterrite a puntarci e farci fare di quelle corse che alle Olimpiadi se le sognano.
Era diventato un problema anche solo aprire il cancelletto del loro recinto: non appena il chiavistello scattava, le due si precipitavano contro l’usciere, costringendolo a doverose ma poco onorevoli ritirate accompagnate da ululati di terrore e strilli riecheggianti.
Per darci un contegno e tentare di sottrarci al tristo destino di venire sottomessi da una coppia di oche –oche!-, iniziammo a girare per il giardino muniti di bastone.
Non sto scherzando. Provate voi a farvi attaccare da una coppia di oche –permettetemi di continuare a sottolinearlo, perché vorrei mettere totalmente a fuoco la questione: stiamo parlando di oche. Qua-qua. Zampe palmate e coda scodinzolante a ritmo con l’andatura a dondolo. Non parlo di Rottweiler né di zebre scalcianti. Quelle che avevano preso il potere nel nostro giardino erano due oche.- oche assatanate, dicevo, e vediamo poi chi ride. La situazione era diventata pericolosa: non si poteva più uscire di casa senza sentire il feroce sibilo alle spalle. A quel punto si rientrava, ci si blindava la porta alle spalle e –dopo opportuni riti di incoraggiamento guardandosi allo specchio e gonfiando i muscoli- si usciva solamente armati.
Purtroppo, con l’arrivo dell’inverno seguente, una tragedia accorse.
Mentre eravamo lontani da casa –il tutto nei giorni della merla, un freddo cane che non si immaginava-, le due oche erano riuscite ad evadere dal recinto e, preparando piani di assalto alle macchine una volta saremmo tornati a casa, si erano date alle passeggiate di complotto.
Un giorno le passeggiatine finirono: uno dei due allegri compagni si avventurò nella piscina, allora ghiacciata, e, forse dopo strenue lotte per uscire, forse abbandonandosi languidamente al freddo, annegò.
Forse si trattava di suicidio, perché è il primo caso di oca annegata di cui sento parlare.
Quando tornammo, trovammo il macabro spettacolo dell’oco a ali spalancate e collo affogato, mentre il suo compagno lo aspettava a bordo vasca, starnazzando e chiamandolo affinché uscisse e la smettesse di scherzare, dato che iniziava a preoccuparlo. Era una scena di una tristezza infinita.

I cani




Che a casa nostra non girino animali tanto normali, ormai si sa.
Si era partiti quindici anni fa con i gatti, ognuno chiamato con il nome di una pietanza –quando mai si era sentito parlare di un gatto chiamato Brodo?-, per poi avere i pesci cannibali e in seguito i cani, dotati di privata ambizione di sterminare i pollai dei vicini e finiti per esasperazione in un centro di ex-tossico dipendenti. Poi sono venuti i pennuti: i piccioni molestatori della quiete pubblica, le oche convinte di dominare il mondo e infine le galline da attico.

Tralasciamo i gatti, che possono definirsi anche normali se si sorvola sul nome e sulle strane attitudini quali il dormire in equilibrio sulla testa di una statua aborigena o sul bracciolo di una panchina, l’apparire sui balconi delle finestre ad altezze sconsiderate –ovviamente appaiono dall’esterno- e l’avere ognuno un’autostima che supera i livelli di sicurezza. Ma d’altronde sono gatti. I gatti sono narcisi di natura.
Passiamo subito ai cani, invece: i due animali erano una felice coppia di fratellastri adottati in tenera età dopo mesi e mesi di sfinimento "papà, vogliamo un cane!". Va sottolineato il "papà". La mamma, che certe cose se le sente, aveva già i suoi dubbi riguardo la cosa. Comunque sia, alla fine la vincemmo noi. E li portammo a casa.
Uno dei due era relativamente normale. Da cucciolo, voglio dire. Prima di arrivare a casa nostra.
Era un normale cucciolotto, uno di tanti fratelli, sguardo felicemente ebete ma dolce, un’allegria sconsiderata, pancia tonda e gommosa, insomma, la beatitudine di essere cane.
L’altro, ahimé, era strano fin dall’inizio, e tutte le famiglie adottive l’avevano notato, scartandolo accuratamente. Era infatti rimasto l’ultimo della cucciolata, solo nel recinto.
Mio papà –e qui si potrebbe scegliere un epiteto che non sarebbe molto gradito ma che paragonerebbe il genitore a un folpo di mare- si era intenerito a vederlo, quel povero cucciolo solo soletto e rifiutato dal mondo, e così aveva deciso di prendere anche lui.
Rendo noto che quando si comprano dei cani, prendere una coppia di maschi è, per dire, smodatamente incosciente da parte degli acquirenti, in quanto i quattrozampe risvegliano le origini lupesche e creano branco a sé, in cui ovviamente gli umani non sono inclusi. Questo porta a diverse manifestazioni di indipendenza e ribellione che generalmente si concludono con la disfatta di uno dei branchi. Quei due malefici vigliacchi avevano deciso che ci avrebbero portati alla sconfitta per sfinimento, e così cominciarono fin dalla più tenera età a scavare fosse sotto la rete del giardino per fuggire verso la libertà. Questa corrispondeva con i campi di pannocchie circostanti. Migliaia di metri quadrati –centinaia di migliaia- di campi di pannocchie.
Che in autunno, ancora ancora, non costituiscono una foresta. Vengono tranciate e i campi restano coperti dagli smozziconi di fusto, altezza media trenta centimetri. In estate, però, i suddetti vegetali acquistano un che di alquanto fastidioso in quanto si ergono in altezza fino a raggiungere i due metri abbondanti, costituendo così una sorta di coltre verde -una volta il nostro giardino, in estate, venne definito "un bosco in mezzo a una foresta"- attraverso la quale non vedi ma neanche se hai i raggi x al posto degli occhiali.
Ecco, i nostri adorabili cani si divertivano a scorazzare tra le simpatiche pannocchie, lasciandoci puntualmente con un palmo di naso. Era seccante sentire le sfuriate di mio papà ogni volta che noi imbecilli ci lasciavamo sfuggire i cani, che divertiti scappavano da tutte le parti, ma fortunatamente una volta, mentre con il cancello socchiuso lui firmava una ricevuta al postino, i due bastardi –che poi tanto bastardi non erano- gli svicolarono tra le ginocchia per darsi all’allegra corsa campestre quotidiana. Da allora, mai più verbo fu proferito riguardo al farsi sfuggire i maledetti da sotto il naso. Ne furono proferiti alquanti, però, quando gli amati e fedeli compagni quattrozampe fecero strage di ben due pollai, divertendosi a fare razzia e a farsi poi trovare dai fattori, sorridenti ed esausti dopo la notte di follie. Circondati da cadaveri o pennuti moribondi. Generalmente tenevano anche in bocca una zampa di gallina, tanto per non far capire che erano stati loro a trucidare orrendamente tutti i poveri gallinacei.
Spesso alle scorribande dei nostri cari, si univa anche un botolo dei vicini, un maltese di dimensioni 40x20 e dal pelo rapato a zero. Il suddetto nano maltese era ferocemente innamorato del cane pazzo -quello pazzo davvero- nostro. Erano una coppia affascinante, a dire il vero. Anche il trio, nel complesso, non se la cavava male; mia mamma era ormai rassegnata al sentirsi rispondere, quando nel mezzo della ricerca disperata domandava ai passanti se avevano visto due cani in fuga, “due no, signora, ma di cani bianchi ne abbiamo visti tre. Andavano da quella parte.”.
Dopo un paio di anni all'estenuante ritmo di un paio di scappate al giorno, per puro caso e oserei aggiungere per puro culo, venimmo a sapere dell’esistenza della pet-therapy in strutture di riabilitazione per tossici o portatori di handicap. Dire che ai miei si rizzarono le orecchie è superfluo. Nel giro di una settimana avevano trovato contatti con un personaggio in una di queste comunità, lavato e profumato i cani e li avevano portati in montagna a fare un incontro per vedere se erano adatti all’incarico. Penso che mia mamma abbia pregato tutti i santi pregabili per far sì che i due mostri venissero accettati e lei fosse liberata da quel fardello che le rovinava la vita da due anni a quella parte.
I due fetenti –e per questo direi che la fervida fede risvegliatasi in mia madre durante quella settimana ha portato a risultati immediati e concreti- furono immediatamente accettati.
Fetenti perché si comportarono impeccabilmente, camminando al passo tranquillo dei padroni, quasi sfilando, e mostrandosi addirittura timidi e deferenti di fronte alle alte cariche del centro.
Fu dunque così, dopo due anni di convivenza, che i nostri cani fuggitivi –di cui uno di tendenze gay- si ritrovarono in un centro di cura per drogati.
Ora che non vivono più con noi pare che siano alquanto tranquilli tutti e due.

venerdì 18 settembre 2009

Grammaticalmente, ti amo.



"Ti amo".
Cinque lettere: tre vocali, due consonanti e poi lo spazio, che va considerato, sennò si offende e sparisce, lasciando che le altre due parole si attacchino/ "Tiamo"/ fuse in un'unica parola che non racchiude il significato delle altre due.

"Ti amo", "I love you", "Je t'aime".
Tre modi per dirlo, stessa sensazione che si prova a sentirselo dire.

"Ti amo".
Io, soggetto, amo, predicato verbale, a te, complemento di termine.
Tre parti, come di tre parti è composta la frase, senza troppe analisi: parola, spazio, parola.
Soggetto, complemento, verbo.
Io, te, l'amore.
Tre parti.

giovedì 17 settembre 2009

Una Chat su Skype



Popi, perché non mi chiami?

Risulti non in linea

Risulto?

Sì, non in linea, ma…

Che strano

Che strano cosa?

Risulto

Risulto?

Sì, non in linea. Risulto è strano.

Beh, insomma…

Popi, quant’è che non usi la parola bastimento?

Bastimento?

Io l’ho usata ieri finendo una lettera, ho mandato un bastimento carico di baci dentro la busta; pensavo di aver dimenticato quella parola, e invece al momento giusto è saltata fuori. Voglio dire, “giusto”, dovrebbe far piacere ricevere un bastimento carico di baci, no? Era una buona conclusione per una lettera, eh Popi?

Sì, ma cosa c’entra?

È che risultare non in linea mi pare strano!

Pomi, sragioni…

No, no! Risultare non in linea è come bastimento! Dire che risulto non in linea… Mi pare di sentir dire che c’è un bastimento in porto. Non dici che c’è un bastimento in porto neanche se lo vedi: dici che c’è una barca, una nave, un transatlantico! E mi vedi non in linea, sembro non in linea, non mi trovi in linea, sono disconesso. E poi Popi, io sono!, sembro!, dai, non risulto! Non voglio risultare qualcosa, Popi, voglio essere qualcosa! O anche qualcuno, eh, anche se devo dire che essere una teiera non dovrebbe essere quel gran male, voglio dire, sei lì, to...

Pomi

Sì Popi

Stai zitto

Ok Popi.

mercoledì 12 agosto 2009

Anni Orsono, In Inghilterra...



Si sa, la cucina italiana fa figo.
In Inghilterra, poi!
Ma all'epoca -estate zerosette, come passa il tempo-, una quattordicenne alla prima esperienza di viaggio all'estero, non si era preparata a dover affrontare le responsabilità che questa fama da cuochi ci comporta.

Era un giorno come tanti altri di una vacanza inglese -forse per molti, una vacanza come tante altre-, piovoso e freddino.
Luglio.
Venerdì pomeriggio, la signora che ospitava una ragazza italiana, tale Melise, sveglia e scattante settantenne in carriera, aveva chiesto alla sua giovane ospite di prepararle una cosa, una cosa che proprio amava da quella volta che -anni e anni orerano- era andata in Italia a Roma, e aveva per la prima volta provato, in un ristorante, quella delizia: il tiramisù.
Zaque, perché era lei la giovane ospite, chi altri, aveva acconsentito.
Subito dopo si era precipitata nella sua camera sgabuzzino a chiamare la mamma: mamma, emergenza. Mi chiede di cucinare. Mi chiede di fare il tiramisù, cosa faccio?
Risposta: il tiramisù, ovvio.
Controrisposta: silenzio.
Controcontrorisposta: prendi nota che ti dico gli ingredienti e come fare...

Un quarto d'ora e una ricarica telefonica dopo, Zaque tornò in cucina brandendo il prezioso foglietto e dando inizio a una puntigliosa ricerca nella sventurata cucina inglese di casa Postping.
Ricerca conclusasi con un bel nulla, la signora era felice portatrice di barattoli di salsa carbonara, maionese, pasta surgelata, cavolfiore bollito con formaggio fuso, ovviamente congelato, ma niente biscotti, niente mascarpone, niente... No, niente un bel niente: l'alcolico c'era e abbondava.
Zaque, dunque, stilò un'ordinata e chiara shopping list completa di disegni per la forma dei biscotti, per poi uscire allegramente a mangiare un pollo fritto e patatine con un amico alto.

Il mattino dopo, la Melise era andata a fare la spesa, tornando a casa dopo aver orgogliosamente acquistato un pacchetto di biscotti rotondi, una scatolina di mascarpone altrettanto rotonda -più o meno una scatola di cibo per gatti- e dodici uova.
Zaque osserva la parata di ingredienti che sfila sul tavolo della cucina, sgomenta /ma che, devo usar tutta quella roba, siamo pazzi? Scritti sembravano meno..../, e trasecola quando, frugando sulla sua scrivania, scopre che il foglietto con la ricetta è sparito.
Improvvisando un collegamento internet di fortuna, collegando il computer con un cavo rosicato e posandolo nell'unico punto con segnale di tutta la cucina -sopra il micronde, per la precisione, che era sopra il frigorifero- , Zaque chiama la mamma.
-Momi, ho perso la ricetta. Mi aiuti a fare il tiramisù?
-Oh mio dio...

-Va bene, allora, cominciamo con la crema di mascarpone: prendi lo zucc....
-Aspetta, aspetta! Mi serve una terrina grande o piccola?
Trovare una scodella per preparare la crema di mascarpone, innanzitutto.
Prima anta della credenza, e una valanga di terrine, scodelle, tazze e teglie travolge la sfortunata cuoca novella.
Con dei riflessi da Spiderwomen, riesce ad acchiappare tutto prima che si sfracellino al suolo, e, mostrando alla mamma i vari modelli, la nostra si trova a scegliere una graziosa terrinetta colorata.
-Bene, adesso prendi le uova e le rompi...Orpetina, devo andare a prendere tuo fratello!
Adesso ricordati: uova e zucchero, mescoli finché non ti si stanno per spezzare le braccia. Poi metti i biscotti, li inzuppi nel caffè e poi sopra la crema. Poi un altro strato di biscotti, crema e cacao. E ricordati il marsala! Poi in frigo. Poi non vedi di non finirtelo...
Zaque ringrazia e chiude la chiamata, offesa nell'intimo: come, non ha fiducia nella mia ferma volontà dietetica?

Mentre rompe le uova e fa per separarle, il suo inconscio si sveglia con una gran voglia di litigare.
-MA CHE FAI! Non si devono separare!-
-E come no!
-No!
-E perchè no?!
-E perchè sì?!
Immaginate la tensione che doveva attanagliare Zaque, se in cucina si stava perdendo a discutere con una terrina nella quale vedeva riflessa una Zaque paranormale con la ferma intenzione di non farle separare le chiare delle uova dai tuorli.
In questo litigio con le uova in mano, si rischia l'incidente di Stato per decidere se separare o no le chiare, dato che la mamma dettando la ricetta aveva sorvolato sul particolare. Il solito difetto dei grandi cuochi che pensano che gli sguatteri sappiano già tutte le regole della cucina.
Alla fine Zaque materiale vince, e separa le uova.

Lo zucchero, adesso: Zaque arraffa tutto quello che trova in cucina e lo butta nella scodella.
Dio che schifezza stucchevole, si può pensare.
Proprio: lo zucchero in giro per casa era fin troppo poco!
La vispa settantenne business-woman, con la scusa del tenersi in forma aveva rimosso quasi totalmente qualsiasi forma di dolcificante che non fosse sotto forma di pastiglietta d'aspartame.
Fortuna volle che in Zaque emergesse l'istinto di sopravvivenza -tiramisù all'aspartame, no grazie- e riuscisse a scovare un pacchetto semi dimenticato nel fondo di una credenza; salva.

Buttati gli ingredienti, inizia a mescolare. E mescolare. E mescolare.
Alla fine aveva un braccio che neanche Nadal...
Dopo aver sudato quattrodici grembiuli da cuoca, posa la terrina e si dà all'arte del mosaico: siccome i biscotti erano rotondi e la teglia no, era nescessaria un'opera di grande pazienza e precisione per arrivare a una soluzione soddisfacente.
Così, dopo un quarto d'ora di perizie biscottiche -biscotti digestivi, tra l'altro, non savoiardi-, la teglia era un'opera d'arte che neanche gli Spilimberghesi se la possono trovare: un mosaico dolce, geometrico e perfetto.

A quel punto Zaque si ricorda che doveva metterli nel caffè, i biscotti.
E di distruggere l'opera non se ne parlava neanche, così si rappacifica con lo strappo alla ricetta decidendo di preparare la bevanda e poi spanderla a cucchiaiate sul mosaico.
Sì, la bevanda.
In Inghilterra è possibile trovare il caffè macinato? E una moca?
Eeeeeeeh.
No.
Caffè solubile, decaffeinato, per giunta.

Fatta la dolorosa scelta di proseguire nonostante tutto -resistere, resistere, resistere!-, Zaque prepara una bella tazzona di beverone, e, sul punto di inizare a spargerla, si ricorda del marsala.
E quello, si mette nel caffè diretto, nella crema o sui biscotti?
Ottima domanda. Ma il quesito più importante è: il marsala c’è, in questa cucina dimenticata da dio?
Dando il via a una nuova ricerca tra varie bottiglie di alcol, viene rinvenuta come unica candidata al luogo di alcolico del dolce, una mezza tanica di Brandy.
Poco male –pensa la Zaque-.
A quel punto una parte di lei che ancora non conosceva, quella masochista, decide di mettere il marsala un po’ dappertutto: così alla fine perlomeno si sta ben sicuri che non mancherà!
A noi che la vediamo da fuori, la vicenda, viene dato sapere che in quel tiramisù alla fine ci finì un quinto di tanica.

Dopo lunghi spargimenti di crema, appiccicamenti di biscotti e spolveramenti di cacao –che comportarono anche grandi spolveramenti della cucina, dato che la scatola di cacao aveva subito un tracollo ed era precipitata sul pavimento creando un fungo di polvere di cacao che non si immagina-, una bella teglietta tiramisudale era pronta.
Zaque, soddisfatta, si spazzola via i resti di crema –degno e meritato premio- con alcuni biscotti debitamente inzuppati nel caffè restante. Che aveva anche il brandy dentro.
Dopodichè, senza capire perché diavolo vedesse tutto un po’ traballante e camminasse un po’ a zigzag, va in camera, perché le è venuto un gran sonno.
La sera dopo cena, orgogliosamente, prende dal frigo la sua opera d’arte, e, felice e contenta, alla faccia del lato dietetico del suo consciosemiconsio, se lo pappa tutto quanto con la felicemente ciboitalianizzata padrona di casa.

sabato 8 agosto 2009

Armando e Tavolozza






Sono seduti sulla panchina, in orto: è un tardo pomeriggio quasi estivo, è metà giugno, e il sole non è ancora tramontato. Fa caldo.
Armando è seduto, il bastone tra le ginocchia, e si guarda attorno.
Sette pali a destra –palo vuoto, palo con zucca, palo vuoto, palo con finocchio, palo vuoto, palo con rosa, palo vuoto-, sette pali a sinistra –un unico roseto da cui spuntano quei tronchetti-.
Sentiero di mattonelle rovinate, pulito dalle foglie.
A destra, dopo i pali, una serie di piantine di pomodori, melanzane e cipolle ordinate in file simmetriche e regolari nelle loro aiuole; a sinistra il roseto: rose rosa antico, rose bianche, rose rosa pallido, rose rosse, poi un glicine bianco che copre l’intero corridio di mattonelle sciupate.
Armando si guarda attorno soddisfatto. E’ proprio un gran bell’orto, il suo; ci ha lavorato tutta la vita, combattendo infinite guerre contro parassiti, veleni, cani che scavavano buche in ogni aiuola, ed uscendone sempre vincitore, a costo di applicare tecniche surreali e di farsi attribuire la fama dello svitato.

“È proprio un bell’orticello, eh cara?”
La gatta sedutagli a fianco alza gli occhi.
È una bella gatta giovane, tonda e panciuta, di uno strapazzo di colori mescolati in modo tanto folle da attribuirle il nome di “Tavolozza”.
Una gatta molto gatta in sé, indipendente e opportunista, ma amorosa e ruffiana ogni volta che le capita l’opportunità.
Segue sempre Armando nelle sue passeggiate in giardino, a coda dritta, zampettandogli dietro e facendo le fusa, arrotolandoglisi attorno alle gambe per farsi grattare la testa.
In quel momento è seduta composta sulla panchina con lui, coda arrotolata, zampe allineate, muso dritto e attento, occhi –verde e giallo uniti in un colore mai visto- socchiusi a scrutare avanti a sé.
Gira la testa, alza gli occhi, guarda Armando, e lo vedi da dentro quegli occhi che con il suo amico lei parla veramente.
Lo guarda, e Armando risponde, parlandole e facendole grandi discorsi sulla sua vita, sulla sua gioventù fuggita, sugli amori passati, sulla paura di morire.
È Tavolozza che ha paura di andarsene: Armando non teme la morte. L’ha guardata in faccia molte volte quando ha fatto la guerra, sa che è solo una vecchia signora da andare a trovare. così cerca di convincere la gatta a fidarsi di lui.

Povero nonno, pensano i nipoti più grandi e i figli del vecchio, guardandolo da dietro le tende delle finestre mentre lui discorre con il felino, è proprio andato.
Tavolozza non sopporta i nipoti di Armando. Quando si dice che gli animali capiscono tutto: lo sa, lei, quello che i nipoti architettano, quello che dicono alle spalle del nonno rimbambito, quello che nascondono dietro sorrisi ipocriti.
È un classico: è la casa di riposo. Ed è domani mattina.
Tavolozza sa che in casa di riposo i gatti non ci stanno. E che assolutamente non si può tenere un orto in terrazzo.
Fermo nella sua testardaggine, Armando sarebbe capace di zappare il parquet della camera, ma sarebbe un episodio da evitare.
“lo so, lo so anche io, ma sai bene che ho sempre il mio asso nella manica” risponde Armando.
La gatta un po’ ci crede, un po’ no.
“vedrai, non ci andremo.”
Lei lo guarda diffidente poi gli struscia la testa contro il ginocchio.
Guardano assieme il sole che tramonta, aspettano gli ultimi raggi.

Il sole è calato, il cielo resta di un rosa e azzurro sbiadito, qualche nuvola intorno.
“andiamo, Tavolozza”.
Armando si alza, la gatta stira le zampe e salta dalla panchina, scuotendosi tutta.
Sono in piedi di fronte alla panchina, immobili –“nonno, vieni dentro!”-.
Armando guarda sorridendo la casa dove ha fatto crescere i suoi figli. Saluta a mente tutti i suoi nipoti, figli, parenti, amici.

“non saprei, Tavolozza. Hai salutato?”
“…”
“benissimo, possiamo andare, cara. Non preoccuparti e stammi vicina.”
Appoggiandosi leggermente al bastone, si gira e cammina lentamente verso il fondo dell’orto, la gatta a fianco, ballonzolante.
E piano piano, pezzetto per volta, Armando svanisce.
Con la gatta, con il suo orto.
Spariscono il cappello, la giacca, il bastone, la coda di Tavolozza.
Là dove c’era il vecchio, adesso c’è il nulla.

giovedì 30 luglio 2009

La Prima Invasione




Da alcuni anni pare che casa nostra sia territorio particolarmente appetibile per gli invasori.
E adesso non cominciate con le accuse leghisti di qua, leghisti di là, e il Veneto leghista eccetera eccetera: la mia è una constatazione oggettiva di una cittadina italiana che non sa più cosa fare con questi fastidiosi parassiti che circondano e riempiono il nostro territorio, le nostre case e le nostre città, impedendo le attività più semplici e infastidendo chiunque in maniera insopportabile ogni volta che te li trovi lì davanti, con quello sguardo ebete, che ti fissano.
Fa razzista, ma non ci posso fare niente: li odio, i colombi.
Odio colombi e formiche, a dirla tutta, ma perlomeno le formiche tacciono e non ti gorgogliano fuori dal balcone alle sei del mattino.
Non sopporto colombi e formiche, ok, ma le formiche non scagazzano in giro per il portico, corrodendo le colonne e rendendo lo spazio impraticabile e a rischio di bombardamento in testa a meno che tu non ti protegga con un elmetto –o ombrellino, per le signore-.
A buttarla così pare che i pennuti siano una catastrofe universale, piombata nel pianeta terra come punizione divina per i nostri eterni peccati.
Effettivamente, lo sono. La catastrofe universale, voglio dire; poi se fossero anche una punizione divina, la cosa potrebbe solo rallegrarmi: c’è la speranza che, scontata la pena, i piccioni spariscano.

Questi uccelli, comunque.
Ma non hanno proprio nulla da fare, durante il giorno?
Ma che senso ha, quando a pochi chilometri c’è Venezia con i suoi squadroni di turisti armati di briciolosi panini, con le sue vecchiette che vendono becchime, con tutto il suo ambaradam che crea un perfetto habitat piccionico, che senso ha, dicevo, andare a stabilirsi in massa in un’innocente casa in campagna?
Uno degli innumerevoli segreti di Fatima, dovesse essere mai svelato, vi avverto già che riguarda questo quesito.
Quesito al quale qui in famiglia, l’anno scorso, trovatici con il portico della casa diventato condominio piccionesco, abbiamo smesso di cercare risposta per passare all’azione diretta: trovare una soluzione pratica, veloce, definitiva.

Dovete sapere che in casa mia siamo dei ghiri pazzeschi. Pazzeschi ma un po’ anomali, purtroppo: siamo tutti ben dotati di sonno estremamente leggero verso i rumori più assurdi.
Che so, ci fate partire un martello pneumatico sotto casa, e noi pacifici continuiamo a ronfare.
Cade un cucchiaio in cucina, però, e ci svegliamo di botto tutti.
In ogni caso, per farla breve, una mattina ci siam svegliati e sonno ciao, sonno ciao, sonno ciao ciao ciao, una mattina ci siam svegliati e abbiam trovato là i piccion.
Una coppia che tubava allegramente, ovvio, due giovani pennuti felici di aver trovato una comoda sistemazione a quattro camere con vista sul giardino.
Sapete, queste sono le cose che proprio ti fanno salire un giramento di scatole che non ti molla più, specie se avete ben presente il verso dei piccioni.
Voglio dire, il piccione almeno avesse un allegro cinguettio che ti sveglia che è un piacere anche alle quattro del mattino.
Fosse sempre stato noto per le capacità risveglianti.
Avesse un bel tono di voce, fosse anche basso e monotono o squillante e acutissimo, quasi una specie di violino con la coda e le piume.
No. Il piccione ha quel mezzo tono borbottato e martellante, un sussurro a sfondo semi-erotico che ti risveglia dal sonno più pesante, quel gru-gru che già da sotto le coperte ti fa pensare che devi andare a scuola, che devi andare al lavoro, e anche lì trovarti con le orecchie imbottite di quel verso strisciante e ruffiano.
Non ci vivi, giuro. Non ci convivi con l’anima in pace per più di un mese e mezzo, se sei abituato con le rondini che garriscono o l’usignolo che cinguetta come un pazzo prima dell’alba.
Non ci vivo io e mio papà aveva già oltrepassato e doppiato i limiti di sopportazione dopo la prima settimana.
Ha quindi deciso di prendere quelle soluzioni di cui dicevo.

La prima è stata pacifica.
Ha bloccato l’accesso ai nidi con dei ferri appositi, passando un pomeriggio appollaiato su una chilometrica scala a pioli e armeggiando con fil di ferro e attrezzi.
Soddisfatto del suo operato, la sera è andato a dormire contento.
Il mattino dopo, alle ore sei precise, un gorgoglio tubante lo ha distratto dal sogno e l’ha riportato alla realtà; convinto di essere ancora in un incubo, ha spalancato il balcone ed ha assistito al tranquillo farsi largo dei piccioni tra gli spunzoni. Beati, tranquilli loro: con le ali e un incedere leggermente tronfio e sempre con quel je ne sais quoi di incredibilmente ottuso, passavano attraverso il confine appuntito che papà tanto aveva lavorato per ergere.
Un pomeriggio in alta quota mandato in malora.

Già alla seconda soluzione il pater familias era passato a un che di meno pacifico.
Approfittando del periodo –era quasi Halloween-, ha comprato una scatola di petardi e si è costruito una specie di trincea nel terrazzo, dalla quale spiava i movimenti dei pennuti.
A questo punto dovete immaginare vostro padre che di mattina si sveglia a ore assurde e, in camicia da notte, apre di soppiatto la finestra e lancia fuori un petardo, così.
Poi si incazza, perché i piccioni –che poi si dice stupidi, stupidi… Alla faccia degli stupidi- già al secondo petardo avevano capito che al breve sfrigolio della miccia seguiva l’esplosione.
Quindi loro, placidi e imperturbabili, all’udire il leggero crepitio pre-scoppio, levavano i regali sederi piumati dal nido e se ne andavano sull’albero a godersi i fuochi d’artificio.
Per poi, ovviamente, tornare e commentare con allegri gru-gru quanto divertente fosse stato l’assistere al botto.
Probabilmente avevano pure sparso la voce di questo allegro spettacolo, perché nel giro di una settimana la famiglia di piccioni si è allargata, aprendosi a una nuova e giovane coppia di pennuti.
I quali, da che natura è natura, hanno iniziato immediatamente a sfornare uova e piccoli uccellini.
Puntualmente, al nascere di una nuova generazione pennuta, il conflitto a fuoco si sospendeva, perché i piccoli facevano tenerezza.
Appena mettevano il becco fuori dal nido, però, il capo della resistenza rimetteva mano alle armi.
Era diventato una vera guerra, con tanto di alleanze e spartizione dei ruoli.
Capo comandante generale indiscusso, nonché artificiere e capo dell’attacco aereo era mio papà.
Mio fratello minore l’addetto ai rifornimenti, il fratello mezzano era lo stratega.
E i gatti, i miei amati sei gatti, erano diventati preziosi alleati di terra, con i quali papà contrattava a suon di lische di pesce e scatolette di tonno allo scopo di convincerli a mirabolanti acrobazie per arrampicarsi sulle colonne, entrare nei buchi dove stavano i nidi e fare razzia.

Dopo un paio di mesi e qualche centinaio di petardi lanciati con inutile precisione esattamente dentro i nidi, mio papà si è illuminato ed è passato alla terza tecnica.
Ha rapito un mio amato peluches a forma di pappagallo rosso e blu, l’ha imbragato in una specie di cintura elastica e l’ha posizionato ad ali spiegate esattamente davanti al nido principale dei colombi.
La presenza inquietante, devo dire, ha funzionato.
Per quasi una settimana non siamo stati svegliati dal tubare dei pennuti.
Purtroppo, si sa, il bel gioco dura poco, e gli invasori si sono presto accorti della bufala e sono tornati a vivere nelle loro casette sottotetto, quasi felici di avere un nuovo silenzioso e colorato vicino.
A quel punto stavamo seriamente pensando di cambiare casa.

Un giorno però, mia mamma è stata colta da un’idea mentre puliva la casa.
Ha preso il mocio vileda che da mesi militava nella nostra lavanderia, e con fare atletico l’ha lanciato come un giavellotto diritto nel foro del nido.
Vedendo che i piccioni non tornavano, ha continuato la sua operazione, rendendo il nostro portico alquanto ridicolo; voglio dire, già c’era un pappagallo di peluches appeso al soffitto, aggiungendo a questo una serie di scope di saggina o di stoffa che stavano conficcate sulla cima delle colonne, si arrivava a risultati alquanto allucinanti.
Comunque sia, anche dopo questo tentativo abbiamo avuto un altro periodo di pace.
Il terribile verso gru-gruante non ci assillava più il mattino, rendendoci isterici e irritabili tutta la giornata.

Ma un giorno è tornato.
E non capivamo neanche da dove venisse, porca miseria, c’erano scope conficcate ovunque, i buchi erano tappati, il sottotetto era pieno di piccoli alveari di vespe in quel periodo (la primavera stava ormai arrivando), pareva impossibile; che fosse un’allucinazione?
Ahimè non lo era.
I piccioni, semplicemente, approfittando della nostra gentilezza di aver lor fornito un tale comfort, si erano intrufolati nei fori e fatti il nuovo nido nella parrucca del mocio vileda.
Ovviamente si erano stabiliti nuovamente nella parte più nascosta all’interno della colonna, così da essere ancor meglio protetti e invisibili a qualsiasi offensiva.

Una volta comprati un paraorecchie per membro della famiglia, siamo giunti alla conclusione più spietata, l’unica che non avremmo mai voluto, ma purtroppo l’unica per liberarci dei nemici.
Era ormai quasi un anno che combattevamo inutilmente.
Era quasi un anno che i piccioni si riproducevano ininterrottamente, continuando a prolificare a ritmi insostenibili.
Avevamo capito finalmente il loro unico punto debole.
Una mattina, armati di scopa, i miei genitori sono saliti in terrazzo.
Hanno posizionato le loro lunghe armi dentro i fori, sopra i nidi e, dopo aver fatto fuggire le madri piccione, hanno eliminato il problema alla radice: PATAM!

Un colpo secco e le uova, la generazione di maggio della famiglia piccionesca sono andate in frantumi.

Da allora non sono più tornati, i piccioni.
Sono arrivate le formiche, in compenso, ma questa è un’altra storia.

martedì 28 luglio 2009

Beethoven e la Colomba






Vivo una vita magnifica.
Immagina di essere un piccione, un tordo, un merlo, insomma, uno di quei volatili che trovi un po' dappertutto.
Anzi, immagina di essere una colomba, come me: una giovanissima colomba di città.
Ora immagina cosa voglia dire vivere in piazza, avere un bel nido in centro, tutte le comodità a portata di planata, il palazzo da cui volare per la prima volta giusto di fianco a quello dove stai, il centro della LIPU giusto a cento metri, i giardini con il fossato dietro il centro LIPU.
E' una vita stupenda, perfetta, impeccabile.
Ho pure il conservatorio, davanti al nido.
Un gran casino a volte, già. Effettivamente là ci studiano, imparano, e per imparare devono pur sbagliare, no?
Comunque, se quel trombettista dell'aula 19 -giovedì dalle 17 alle 17.45- stonasse un po' meno, non sarebbe male.
E il violinista del secondo piano -martedì 14-14.30- potrebbe non fare tutti quegli acuti, che rovinano i timpani, a lungo andare.
Tutti i giorni, però, da qualsiasi aula, in qualsiasi orario, sento la bella musica, ah, quelle note che mi girano attorno, quelle pause che mi fanno frullare le ali mentre aspetto che la melodia continui, tutto quel qualcosa che non so descrivere -che diamine, sono una colomba, mica un usignolo- , e allora perdòno le peggiori stecche e mi ammorbidisco, mi rimbambisco, mi rincitrullisco, sto inerme ad ascoltare, le ali tese e immobili, sospesa in volo.
La prima volta che mi è capitato ero di ritorno da un giretto ai giardini.
Era quel periodo qualche mese fa in cui tubavo con un colombo, e passavo i giorni a svolazzare con lui sopra i tetti dei condomini, godendomi i tramonti e il panorama della città.
Insomma, quella volta era un tardo pomeriggio estivo, e volavo allegra verso il mio nido, quando ho sentito una musica pazzesca che veniva dal conservatorio.
Così, curiosa, ho voltato la coda alla casa e mi sono diretta verso le finestre della scuola.
Più mi avvicinavo, più la musica si sdoppiava, si triplicava, si diversificava, e da quell'insieme che mi pareva una singola matassa sentivo tante voci, basse, acute, era un bosco di mattina, con tutti che ciarlano appena svegliati, cinguettando per raccontarsi i sogni fatti.
Una planata ed ero nel chiostro della scuola.
Nel cortile, pieni di spartiti, sedie, strumenti, stava un gruppo di persone -tante, a dirla tutta, un centinaio- armate di archetti e violini, viole, violoncelli, poi ottoni, e legni, e c'era quel signore sui settant'anni, il direttore.
Era gracile, piccolino, con una camicia rossa -maniche rimboccate-.
Stava lì davanti, e controllava quella massa musicale in ogni suo respiro.
Sembrava impossibile che quell'omino, quel nonnino, fronteggiando cento persone, riuscisse a governare ogni cosa, impeccabile nei suoi comandi, deciso e pungolante, aizzando quegli ottoni, che da là in fondo non si sentivano –ascoltatevi!-.
Le viole seguivano ogni passaggio, andavano a tempo, non sbagliavano arcate. Le viole!
I violini poi parlavano, veramente, parlavano e non strillavano o strepitavano come al solito.
E, giuro, quella volta ho sentito i contrabbassi cantare. Di solito chi li sente, i contrabbassi, nel loro borbottio indistinto. Senti i violoncelli, perlopiù, quei mezzi tenori che si abbassano a fare pure i bassi -esibizionisti-. Io quella volta li sentivo cantare assieme, contrabbassi e violoncelli, con quel tipo là davanti che li incitava e li domava armato solo di bacchetta -venticinque centimetri di palissandro, impugnatura a lacrima-, impersonando la musica.
La impersonava, la viveva, passava a tutti le sue idee e le metteva in musica, comandando ogni suono.
Era trasfigurato nella sua concentrazione, si dannava di farli recitare e parlare, quegli strumenti, si tuffava nelle note, era dentro lo spartito, correva sicuro sulla fune -un rigo del pentagramma-, nessuna paura di cadere di sotto e perdere il controllo, pareva in estasi mentre giungevano agli ultimi accordi.
Ero appollaiata su un balcone a guardarli, infervorata, e appena finita la musica ho cercato di applaudire con tutte le mie forze, ottenendo solo un decollo dal davanzale e conseguente svolazzata in tondo sul cortile.
Mentre nel cortile il direttore si complimentava con i ragazzi, ho sentito un’altra musica, prima coperta dalla foga dell’orchestra.
Attirata dai suoni, ho ripreso il controllo delle ali e sono volata verso l’alto.
Su, più su, ancora un po’, fino alla finestra dell’aula 125.
Era il tramonto, e dal balcone di quell’aula si ha la più bella vista di tutto il conservatorio.
Ho sbirciato dentro, e ho visto un ragazzo di spalle, i capelli mezzi ricci -scuri e un po’ imbizzarriti-, chino su un pianoforte.
Sul leggio, un librone grosso, aperto su un Adagio.
Non la conoscevo, quella musica, ma da quel giorno ad oggi l’ho sentita tante volte –quanti pianisti la studiano!- , ed era la Patetica di Beethoven.
Lui la stava strimpellando, lo spartito era pulito, nessun segno di matita o diteggiatura, nessun appunto, non l’aveva mai studiata, si stava solo concedendo un momento di musica dopo qualche ora di studio –c’erano libri di studi, Clementi e Chopin, a fianco del leggio-.
Ho cambiato finestra, mi sono spostata su quella laterale, ecco, e da lì lo vedevo di profilo.
Non l’aveva proprio mai provata, quella parte, si vedeva da come stava seduto, da come respirava, da come si poneva verso di lei.
Gli occhi spalancati a cercare di leggere ogni nota, ogni sedicesimo, ogni voce, le mani che annaspavano leggermente, lui sbagliava, provava il pedale a caso, il suono sembrava quasi infantile, pasticciava, si perdeva, poi si è fermato e la magia era finita improvvisamente.
Non si è arreso, però, ha spianato il libro –nuovo, appena comprato. Sono sempre così belli i libri nuovi, ma vogliono preservarsi giovani e intatti, si rifiutano di lasciarsi aprire così cercano di richiudersi continuamente-, ha posato un volume di Bach –il Clavicembalo Ben Temperato, volume secondo- sulla pagina sinistra per tenerlo aperto a forza.
Quando ha riprovato non suonava tutte le note.
Solo due voci, superiore e inferiore, la nota più alta e la più bassa.
Da quella confusione che c’era prima –tutti quei sedicesimi nella voce in mezzo, tutto quel casino- la polvere, la nebbia, il rumore sono sparite per lasciare posto a una dolcissima disperazione che si è sbozzata, definita e sviluppata di battuta in battuta.
Lui entrava piano nella melodia, sudava quasi, ma gli occhi brillavano.
Le mani tremavano mentre si muovevano a cercare le note, erano tese, un fascio di nervi, non volevano sbagliare e spezzare la meraviglia, lui non voleva confondersi, voleva finire almeno quelle due frasi, quel capolavoro scritto su un pentagramma.
Io l’ho guardato, da fuori, poi ho chiuso gli occhi.
Mentre ascoltavo, il sole stava cominciando a tramontare.
La città era illuminata di rosa, le note mi avvolgevano.
E’ stato quel giorno che ho capito di vivere una vita meravigliosa.

martedì 7 aprile 2009

Mia Mamma E Il Cavolo


Mia mamma è fantastica.
Piena di qualità, bella, superattiva, creativa, potrei andare avanti all’infinito nell’elencare tutte le cose belle che fa.
Ha una specialità, però.
Brucia i cavoli.
In un modo pazzesco, per giunta, giuro.
Ha una media di un cavolo bruciato alla settimana, il che incrementa la spesa in verdura della nostra famiglia, dato che il cavolo piace, sì, ma cotto normale, non carbonizzato. Consequenzialmente, infuocato un cavolo se ne compra un altro.

La sua tecnica è semplice: compri un bel cavolo, lo lavi, lo sistemi comodamente contornato delle sue foglie in una pentola con dell’acqua –non tanta, due dita-tre, non di più-, lo metti sul fornello a fuoco non troppo basso.
Fin qui il procedimento coincide con la preparazione del cavolo per cucinarlo.
La deviazione dal percorso tradizionale si ha a esattamente meno cinque minuti dalla fine della cottura, dopo che ti sei sorbito un tanfo di cavolo lesso che ha invaso la casa e impestato i vestiti di tutti i famigliari e dopo quei quarantacinque minuti di boato di cappa aspirante lanciata a spron battuto per cercare di limitare –almeno parzialmente- i danni odorosi cavolistici.
A quei famosi meno cinque minuti dalla fine, ti distrai.
Ma ti distrai per bene, eh.
Cioè, mica puoi dire, ok mi distraggo, ora prendo il giornale, sto qui in cucina, mi metto a leggere e appena sento un mezzo odorino di bruciato –oh cielo!- mi fiondo sul fornello, spengo tutto con l’estintore, apro trepidante la pignatta e il cavolo è lì bello bello che mi guarda, cotto a puntino in una delicata versione della carbonara.
No.
Tu ti devi distrarre a fondo.
Che so, generalmente mia mamma si distrae per le più svariate attività, quali il studiare con uno dei miei fratelli, il mettere in ordine qualche stanza –ovviamente ben lontana dalla cucina e mancante di orologio-, l’andare a prendere a scuola o me o i suddetti fratelli.
Comunque sia, un’attività qualsiasi va bene, a patto che sia bella impegnativa: deve farti rimuovere il pensiero del cavolo dalla mente, e farti cimentare per minimo minimo un quarto d’ora abbondante.

Quando torni in cucina non ti accorgi nemmeno del miasma carbonifero che impesta la stanza.
Ti siedi al tavolo, o finisci di leggere il giornale, scrivi un appunto, prendi il telefono, ma nel mentre dell’azione le tue narici sono sottratte al pensiero distratto in cui eri immerso.
Riportato alla realtà e preso dal panico ti lanci con un balzo olimpico verso i fornelli, immergendoti nella nuvola di gas tossico che si propaga dalla pentola, chiusa diligentemente da coperchio sigillante.
Apri, e il cavolo –a volte il cadavere dello stesso- ti guarda dal fondo della pentola, straziato dal bruciore che sale, bianco ancora, sì, ma con quel marroncino sospetto che si propaga da sotto le foglie.
Cercando di soccorrere il vegetale, per non scottarti arraffi il primo strumento da cucina disponibile –generalmente capita un coltello- e tenti disperatamente l’impresa di estrazione dalle macerie della pentola, ustionandoti minimo due dita nel tentativo, e ricordandoti solo poi che il tegame scotta e non bisognava toglierlo dal fuoco a mani nude.
Indisturbato dal bruciore sopraggiunto alle mani oltre che al cavolo, continui imprecando ma imperturbabile e lo estrai fumante dalla pignatta con l’atrezzo rinvenuto poco prima –sennò ti scotti, eh!-, per poi lasciarlo ricadere e correre alla dispensa per acciuffare un piatto-barella su cui depositare il soccorso.
Compiuto il pronto intervento, osservi il ferito.
Se la precedente azione distraente ha funzionato, sarà bruciato a metà e immangiabile.
Se l’azione distraente non ha funzionato degnamente e l’inconscio culinario ha avuto il sopravvento, ergo si è tornati in cucina dopo un tempo relativamente breve, il cavolo sarà ancora mangiabile, nonostante le foglie siano ormai diventate carbone da stufa.

Ecco, la tecnica base è questa.
Poi si possono avere variazioni quali il mettere il cavolo a cuocere alle sette di sera sul fornello elettrico in giardino perché dentro puzza, e poi ritrovarlo la mattina dopo uscendo alle otto.
Oppure metterne ben due in pentole diverse e andare a far ginnastica.
Ma queste sono specializzazioni che mia mamma ha raggiunto con la pratica.
Io, che sono ancora giovane figlia senza obblighi domestici, la prima –e suppongo unica- volta in cui mi sono messa a cucinare il cavolo –oggi- mi sono diretta in bagno per controllarmi i capelli e dopo mezz’ora ero lì che mi applicavo creme e tonici vari su un brufolo prepasquale comparso misteriosamente stanotte.
Tornata in cucina, mi sono dimenticata di annusare, ma dopo un paio di minuti ero disperata ai fornelli cercando di rimediare al danno.
Ora sono a scrivere con una mano sola, perché le dita dell’altra sono un po’ scottate.



sabato 4 aprile 2009

La Teoria della Farfalla




Consegna dei compiti di filosofia.

La classe è in stato di trauma.

Il professore, seduto sulla cattedra, li guarda nella loro incredulità -quattro?? Cinque e mezzo, tu?-.
Gli alunni chiedono spiegazioni, come mai questa strage prof, siamo tutti insufficienti, ma come, ma cosa, ma perchè, ma...
"Ragazzi, vedete, voi con questi compiti mi avete dato una sorta di dimostrazione dell’effetto farfalla. Sapete cos'è?"

La classe tace.

"Molto brevemente, alcuni scienziati hanno supportato la teoria che dal leggero spostamento d’aria originato dal battito d’ali di una farfalla nel vostro giardino può avere origine un tornado in tutt’altra parte del mondo. Ecco, praticamente nei vostri compiti siete partiti tutti da piccoli errori all'inizio del ragionamento per arrivare a fare un gran casino alla fine del compito."

...La classe non replica.

lunedì 23 marzo 2009

Lunedì mattina



Esco di casa –borsa in spalla, mezza colazione ancora in bocca-, è ancora presto.
Un silenzio mattutino avvolge la via laterale del piazzale di Caripegne –è lunedì mattina-.
Regna un silenzio assonnato.
Un silenzio intorpidito.
Un silenzio che, lo sa anche lui, tempo quattro minuti –sono le setteetrentasei- inizierà a creparsi, per poi distruggersi e disintegrarsi in mille rumori nel caos di quel quarto d’ora –dalle setteequarantacinque alle ottoinpunto, a volte fino alle ottoecinque- in cui le macchine, i motorini, le biciclette e gli studenti vagano allo stato brado nella savana della Via delle Scuole di Caripegne.

Il silenzio intatto si gode fino all’ultimo secondo, coccolandosi nella sua integrità: sembra tutto deserto, le case con le tapparelle abbassate, la strada vuota, i primi raggi di sole che spuntano da dietro le case.
Poi l’orologio scatta: manca un quarto alle otto. I cancelli delle scuole vengono aperti.
L’orda arriva.

Immaginate di essere un tordo: svolazzando e vedendo la via dall’alto, si penserebbe a una statale, a un’autostrada –magari la A4- nell’ora di punta.
Enormi SUV, corriere gremite, motorini moscerini, biciclette pirata, alunni ciminiera girano bloccandosi nel traffico, realizzando ammirevoli concerti di clacson e scampanellii e creando un nuvolone tempestoso di gas e fumo di sigarette che vaga sopra i tetti, oscurando il tenue sole mattutino.
Li osservo, al sicuro sul marciapiede, e cammino verso il liceo.

Generalmente, dalla bolgia di auto incastrate, la prima a farsi notare, in quanto prima causa del mosaico di traffico, è il SUV della mamma ansiosa.
La noti dal fondo della via.
La mamma ansiosa porta il figliolo a scuola ogni mattina, perfettamente puntuale, spesso in largo anticipo, esattamente davanti ai cancelli scolastici della scuola superiore del rampollo.
Si piazza davanti all’entrata con il suo macchinone, ma non si accontenta di scaricare il pargolo in corsa, evitando di fermarsi troppo a lungo per non creare una coda chilometrica alle sue spalle, no.
Lei, prima di lasciarlo andare, raccomanda al piccino di fare il bravo, di seguire le spiegazioni, di concentrarsi, di mangiare la merenda, di non preoccuparsi se qualcosa va male, che a discutere con i professori ci andranno lei e papà.
Per il tutto ci mette un paio di minuti.
Due minuti sono niente, in una giornata.
Due minuti, all’orario di entrata a scuola, e precisamente in Via delle Scuole a Caripegne, sono un’epoca e mezza.
E se per quell’epoca e mezza tu ti fermi in mezzo alla strada con una specie di panzer quattroruote tirato a lucido, crei un intoppo, un intralcio, un blocco, insomma, infogni il traffico per il seguente quarto d’ora.
La mamma ansiosa lo sa questo, ma non gliene frega assolutamente nulla.
Per il suo piccolo, questo ed altro.
Dopo le raccomandazioni –“sssì mamma”- il fanciullo - un metro e novanta di fanciullo per ottanta chili, solitamente tri-bi-ripetente- spalanca la portiera colpendo un innocente studente-pedone ed esce, passo strascicato e spalle curve, dirigendosi in classe.
La mamma resta, sta a guardare il figlio -adorante e silenziosa- finché non scompare inghiottito dalla folla di compagni, ma all’ultimo momento, quell’attimo prima che il suo bambino venga divorato dal portone della scuola, l’istinto materno affiora prepotente, le fa spalancare il finestrino e gridare un “buona giornata, stella!”, per poi rombare via, incarognendosi con il traffico e lanciando le peggiori bestemmie a quelle mamme che si fermano davanti alla scuola per lasciare i figli.

Supero la scuola dove la prima mamma ansiosa della giornata ha scaricato il discendente -un professionale popolato da soli esemplari di adolescente maschio probabilmente umano-, e proseguo inoltrandomi nel cammino e nella folla di studenti che si ingrossa ad ogni metro.

Mentre la mamma ansiosa ricopre il suo ruolo di mamma ansiosa, ostruendo la viabilità stradale, i marciapiedi diventano regno induscusso dei ciclisti –la pista ciclabile è un optional, a Caripegne-.
Felici di non dover combattere con i motociclisti moscerini per la sopravvivenza nell’habitat asfaltato, schizzano a velocità folli per tutti i marciapiedi, scendendo e risalendo a seconda dello scorrere delle auto, rischiando di fracassarsi contro una macchina –in strada- o –sul marciapiede- di travolgere greggi di innocenti studentelli delle scuole medie, ancora ingenui e ignari delle tecniche per evitare i ciclisti killer, quali il muoversi “a muraglia” –spalancare le braccia ed avanzare a passo di lumaca, oppure prendersi tutti a braccetto e costituire una barricata umana occupando tutto lo spazio disponibile -, o, se in solitario, il munirsi di cinque borse e sacchetti –sacca di ginnastica, zaino, borsetta, busta con dizionario ed eventuale seconda borsa per portarsi ulteriori libri scolastici- e quindi rendere impossibile il sorpasso da parte di un pedalante anomalo, impaurito dal rischio di agganciarsi a uno dei vari manici o spalliere delle borse.
Con un balzo acrobatico schivo tre ciclisti, faccio la gimcana per evitare un paio di sportelli automobilistici in apertura, poi –e scusate, eh- inizio a camminare a gambe larghe, stile sceriffo western, gomiti sui fianchi e andatura placida, pronta ad andare letteralmente incontro a qualsiasi ciclista mi si avvicini.
Questo marciapiede è troppo stretto per tutti e due.
E quella che scenderà in strada non sarò certo io.

In eccezionali giornate o orari in cui le mamme-stoppa-traffico non sono ancora posizionate nel mezzo della strada, e quindi la via è ancora libera, i ciclisti sono soliti muoversi in blocco compatto, occupando ovviamente tutta la corsia del senso e muovendosi al rallentatore, sostituendo quindi le mamme ansiose nel ruolo di intralcio stradale.
Sordi ad ogni suonata di clacson, continuano la loro lenta marcia verso le differenti scuole, aumentando di numero di metro in metro, accorpando al branco tutti i ciclisti circostanti.
I motorini moscerini, ovviamente, vedendosi la pista intralciata da esserini più lenti e più piccoli di loro, si inveleniscono.
Non potendo lanciarsi nello stormo di ciclisti e investire l’investibile -causa vigile vigile pronto ad appioppargli una multa da capogiro alla prima infrazione- , il motorino moscerino si imbastardisce.
Simulando un innocente sorpasso –il fatto che sia a destra non modifica la sua innocenza-, cerca di passare a massima velocità alla minima distanza dal manubrio del ciclista esterno, magari tentando di agganciargli la borsa da ginnastica e quindi trascinarlo per qualche metro.
Se in compagnia, i motorini moscerini adottano la tecnica bilaterale: superano in massa, dividendosi metà a sinistra e metà a destra, e stringendo l’informe massa ciclistica e riducendola alla fila indiana.
A quel punto tu li guardi e ridi, perché quei ciclisti là, il giorno prima te li eri trovati sul marciapiede e ti avevano fatto ballare la salsa per evitarli nel loro procedere zigzagato.

L’unico che in strada non risente dell’attacco motociclistico è il ciclista filosofo.
Il ciclista filosofo -a volte uno studente, a volte uno stesso professore di filosofia- vaga distratto e distaccato dall’agglomerato ciclistico su una bicicletta sgangherata che sembra pronta perdere pezzi ad ogni curva, ma che si regge intatta grazie a chissà quale forza divina o fisica.
Impassibile a qualsiasi tentativo di richiamo, appare totalmente immerso nei suoi pensieri –occhi socchiusi e bocca semiaperta che gli conferiscono l’autorevole aspetto di una triglia al forno- e pedala ancora più lentamente del normale, generalmente al centro della strada con moto vario e traiettoria a zig-zag che rende impossibile il sorpasso.
Quando il ciclista filosofo è un professore, il motorino moscerino non si azzarda a tentare di superarlo.
Quando il ciclista filosofo è un coetaneo, il motorino moscerino non si fa troppi problemi a cercare di passare oltre, con risultati immaginabili.
Il punto peggiore in cui ci si possa imbattere in un ciclista filosofo, è la fermata delle corriere navetta, poiché il rischio di stampare la propria faccia sulla fiancata di uno dei grossi mezzi di trasporto è molto elevato.

Ma le fermate degli autobus non sono luoghi minati solo per l’ignaro ciclista filosofeggiante.
Anche io, innocente pedone, rischio di essere travolta in quelle banchine di scarico, quelle valanghe di zaini, quelle cascate di alunni che si precipitano fuori dalle porte –aria!-.
Cariche come vagoni di treni ai tempi delle deportazioni ai campi di concentramento, le corriere arrivano puntualmente in ritardo e in massa.
Alle setteecinquantaude precise, in piazza, le figure di quattro navette si stagliano all’orizzonte.
Una per punto cardinale.
Sento il rombo dei motori alle mie spalle e rabbrividisco, nonostante io sia ormai a metà strada, non lontana dalla mia scuola.
Purtroppo sono ancora troppo vicina al vicolo delle corriere.
Con manovre allucinanti e quantomai aggrovigliate –lunghi bruchi blu e arancioni-, si impelagano tutte per la stretta via che collega il piazzale con la maledetta Via delle Scuole, incolonnandosi e strombazzando, creando un incredibile blocco del traffico di lunghezza impensabile.
Tutto questo è dovuto al fatto che la prima corriera si ferma alla prima fermata: cinque minuti perché tutti scendano.
Nel frattempo le altre tre corriere aspettano diligentemente in coda, e io cammino sempre più in fretta, sentendo l’orda di scaricati alle mie spalle.
Finito lo scarico, la prima se ne va, e la seconda procede oltre la prima fermata per arrivare alla propria, cinque metri oltre la prima.
Altri cinque minuti per lo scarico degli studenti ammassati nella seconda corriera, poi il procedimento si ripete con la discesa dei barbari della terza e quarta corriera, rispettivamente alla terza fermata –dieci metri dalla fermata numero uno- e alla quarta –quindici metri dalla prima-.
Grazie all’invasione degli studenti provenienti dai comuni vicini, il traffico si blocca per venti minuti.
Ovviamente il vigile vigile non può intervenire, in quanto sta sorvegliando i motorini moscerini perché non cerchino di sterminare i ciclisti, filosofi e non.


Dopo essere stati scaricati dai rispettivi mezzi di trasporto quattroruote, noi studenti ci dirigiamo verso le rispttive scuole, mescolandoci e smistandoci mano a mano che procediamo per la via.
Siamo in tanti.
Ma tanti tanti, perché i diversi sindaci di Caripegne dopo Lanzarelli, sindaco negli anni ’60 che fece costruire il liceo, hanno avuto tutti la brillante idea di far costruire una scuola per ciascuno.
E non hanno pensato di costruirle sparse.
Hanno tutti avuto il geniale pensiero di concentrarle in un’unica via, così ora la Via delle Scuole di Caripegne –il cui vero nome sarebbe Via Salenzi- conta sei edifici scolastici, nell’ordine da est a ovest: una scuola elementare, una media, un asilo, un liceo, un professionale artistico e un professionale IPSIA.
La media di alunni per scuola è di cinquecentootto ragazzi.
Capirete che, nonstante le elementari e l’asilo entrino rispettivamente mezz’ora e un’ora dopo i mediani e i liceali, il numero di ragazzi dell’età compresa tra undici e vent’anni vaganti per la strada prima delle otto è esorbitante.
Una specie di orda barbarica che discende dai letti, una masnada di giovani menti pronte a stravaccarsi sui banchi, una torma di teenager armati di zainetto che occupa e popola i marciapiedi, scontrandosi con ciclisti impazziti, lanciandosi nel mezzo della strada per attraversare, scendendo con un balzo dalle macchine in semimovimento.
Un’onda.

giovedì 19 marzo 2009

La casa di riposo






La casa di riposo di Caripegne è in centro, vicinissima all'ospedale e al cinema, affacciata su una splendida stradina incatramata dove le auto fiumano tutto il giorno investendo piccioni.
Tecnica astuta, quella del sindaco che, anni fa, fece costruire l'edificio proprio lì: data l'ubicazione, ai vecchietti non viene neanche l'utopica visione di uscire dal cancello per paura di fare la fine dei pennuti.
Oltretutto l'entrata della casa e il cancello distano di qualcosa come duecento metri di stradina sassolinosa e impolverata, che diventa un fiume nei giorni di pioggia.
Strada a prova del più teconologico modello di sedia a rotelle o stampella, è percorsa tutti i giorni da parenti o volontari in un giubilare di bestemmie e insulti al sindaco. Tra le varie richieste di miglioramento è spuntata pure la proposta di organizzare un servizio zattere dal cancello all'ingresso, tanto per rendervi la situazione.
Il giardino è bello, molta erba, alberelli, cespuglietti, una pista per le bocce, diversi spazi dove in estate gli ospiti giocano a carte in infiniti tornei, canasta per le signore, briscola i signori, e poi una rampa sospetta, suppongo serva a fare gare con le carrozzelle, ma non ho mai visto nessuno in azione.

Percorsa la stradina, per entrare nell'edificio si devono superare due porte ad apertura automatica.
Teoricamente, quando qualcuno si mette davanti, si dovrebbero aprire.
Praticamente, quando uno si mette davanti, non si apre un bel niente, e per riuscire ad entrare si devono provare diverse posizioni acrobatiche, divincolandosi e agitandosi in tutti i modi.
Questo succede solo ai visitatori, però, i vecchietti ospiti non appena si avvicinano all'entrata hanno le porte spalancate in fronte a sè.
Perchè questo?
Il motivo risale a qualche tempo fa, quando alla casa di risposo è arrivato Tonio, l'ex elettricista, ormai un po' fuori di testa ma ancora bello sveglio.
Appena ambientato ha iniziato ad annoiarsi, e per passare le ore ha deciso di manomettere tutti gli impianti elettrici della casa, così, per divertirsi un po'.
Tempo una settimana e il salone d'ingresso sembrava un' astronave: luci impazzite che si spegnevano e accendevano in alternanza, l'altoparlante solitamente sintonizzato su RadioMaria che si spostava automaticamente su Radio Capital ogni volta che sull'altro canale si sentiva la parola "AMEN", la tombola automatica che sparava i muneri a destsra e a manca, una follia.
Ancora annoiato, però, Tonio ha avuto un'altra geniale idea: manomettere la porta automatica.
Nottetempo ha tolto qualche filo, connesso una piccola consolle e dato un importante incarico a Dolfina, la paziente con la sindorme di Down che non ha mai avuto nulla da fare, nè è mai stata badata da nessuno.
Ora vorrei ben vedere se c'è qualcuno che non la saluta.
Seduta comodamente nella poltrona vicina all'entrata, Dolfina stringe tra le mani la consolle, ridendo come una bambina e decidendo chi entra e chi sta fuori, aprendo la porta al suo comando e facendo fare ai poveri visitatori saltelli, piroette, step e quant'altro per poter entrare.

Entrati nel salone, esausti dopo una seduta di aerobica davanti alla porta, come prima cosa si saluta Dolfina, e come seconda si fulmina Tonio con un'occhiataccia, mentre lui fa finta di niente e ti sorride angelico.
Il salone non è brutto: grandi vetrate a destra, a sinistra un piccolo palco dove fanno la messa e i concerti, e sparsi per la sala tanti tavolini e poltroncine.
Ai tavoli, ovviamente, si gioca a carte e a tombola, si leggono giornali e si discute, ma non la discussioncina da vecchiette placide e tranquille, no!
Generalmente al centro della lite c'è Polanellina, ex maestra, ora novantenne e quasi cieca.
Essendo cresciuta in una famiglia di sioretti di origine nobile, è stata impeccabile per tutta la vita, mai pronunciata una parola di troppo o un insulto. Beneducata e religiosa, ha potuto frequentare tutta la scuola, arrivando a prendere il diploma, per poi decidere di prendere la strada da maestra e insegnare alle elementari per mezzo secolo.
La sua entrata nella casa di riposo rimarrà nella storia:
Tutti erano stati tirati a lucido, il salone pulito, vecchietti col vestito buono, signore con la messa in piega fatta. "A riva a maestra Benigardi!"* era il grido di battaglia delle infermiere quando dovevano mettere in ordine i recalcitranti anziani, che al nome della vecchia insegnante non osavano protestare.
Arrivato il gran giorno, tutti erano in salone ad aspettarla.
Si apre la porta, la sua sagoma si staglia nella luce.
"Ah Dio bon, vara che mestieri, che ordine! Cossa casso gavio fato?"** sono state le sue prime parole.
Da quel giorno non c'è stata pace, in salone. Polanellina partecipa a tutte le discussioni, infarcendo i discorsi con termini da scaricatore di porto imparati chissaddove.

Dopo il salone c'è un bar, la sala da pranzo e la cucina, affacciata su un corridoio stretto e lungo che ti porta all'ascensore.
Aspetti una decina di minuti (c'è un solo ascensore in tutto lo stabile) e poi sali al padiglione FG4.
Quando arrivi al piano ti trovi in un altro corridoio che ti porta dritto fino alla saletta con la televisione e una cucinotta.
Per arrivare al salottino passi davanti a una quindicina di camere disposte lungo il corrodio. Cammini, guardi a destra e sinistra.
Fuori dalle stanze c'è un cartellino con il nome della signora ospitata.
Polanellina, Dolfina, Triestina, Tatiana, Sidolina, Evaldo, Germana, Oliva,... Ufficio?
Dopo una serie di nomi di questo genere, giuro, quando si vede scritto "ufficio" si pensa subito a dei genitori un po' troppo bizzarri.

Il televisore è sempre acceso su reality o programmi spazzatura. La vita in diretta, Amici, Uomini e donne,.... Le vecchiette guardano, sembrano interessate e non scollano gli occhi un secondo dallo schermo, ma chissà cosa vedono in realtà.
Lì attorno allo schermo c'è Annantonia, piccola piccola, infagottata in una tutina e rincagnita in un seggiolone. Non si muove mai, tiene gli occhi chiusi e un biberon stretto nella mano sinistra.

A destra, la Maria con l'Alzhaimer, che parla tutto il tempo, una nenia senza fine di sproloqui. Parla in italiano, per giunta. Una vita passata a parlare dialetto e poi quando hai l'Alzhaimer scopri di essere bilingue.
Un giorno le hanno parlato di suo figlio, Carlo.
-"Carlo, e chi è Carlo?"
-"Maria, è tuo figlio. Carlo, dai!"
-"Ho un figlio? Nessuno mio aveva mai detto niente!"
La Maria senza Alzhaimer -sinistra- passa le giornate a lavorare a maglia, da sciarpe e maglioni a non finire. Colori un po' assurdi, ma i lavori che fa sono ammirabili, non le casca un punto.

Poi c'è Evaldo, uno dei due signori del piano, lontano dalla televisore si mette schiena al corridoio e sguardo al muro avanti a sè.
Lui ha freddo, sempre freddo. Un giorno ha fatto impazzire il medico che doveva visitarlo: per spogliarlo ci hanno messo cinque minuti -minuti, eh, non secondi- perchè il signore, là, aveva indosso ottto, dico OTTO, magliette di lana e canottiere, più la camicia, il pullover, la giacca, la sciarpa e il cappello. E non è scoppiato di caldo, anzi, quando poi è passata la Caterina, l'infermiera che porta la merenda, le ha chiesto se gli poteva dare un the caldo, ché sentiva freddo.
Le infermiere lo prendono in giro, perchè è il più grande bastian contrario che possa esistere sulla faccia della terra e brontola, brontola, brontola a non finire: il tempo, la cena, il letto, gli altri ospiti del piano ("i ze tuti fora de testa!"***), lo yogurt per la merenda,...
Spesso, il martedì, da lui c'è una ragazza con la giacca rossa e una borsa arancione, dev'essere sua nipote. Quando c'è lei parlano in uno strano slang di dialetto e inglese, perchè Evaldo ha vissuto in Canada e Australia tanti anni, prima di andare in casa di riposo, e se c'è qualcosa che ama fare è pontificare nel suo inglese dialettale facendosi ben sentire da tutte le infermiere che passano.

Davanti a lui c'è sempre Marialuisa, seduta sulle poltronicine vicino alla sua stanza. Dormicchia sempre, e quando è sveglia parla con il pappagallo Scrik, nella gabbietta di fianco a lei.
Antonia è l'altra contendente del pappagallo. Una signorona alta e robusta, che sta là solo perchè i nipoti non si fidavano a farla vivere da sola con una badante. Avevano paura che se la mangiasse, dicono.
Celestina cammina per il piano tutto il giorno, curva curva e con il viso truccatissimo, bianco di fard, occhi bistrati e rossetto brillantissimo. Stringe il rosario e ogni passo è una preghiera, dice lei.
Che fastidio potrebbe dare, una pia donna così devota?
Nessun fastidio, se non fosse che le preghiere le grida con la sua voce stridula, e cessa qualche minuto solo quando don Alberto va in visita il mercoledì pomeriggio.

Poi ce ne sono altri, tanti altri, chiusi lì dentro a girarsi i pollici e guardarsi Maria de Filippi.
E sì che molti di loro sono coetanei, a volte perfino più giovani, di personaggi che, per esempio, a 72 anni suonati vanno in discoteca e si circondano di ragazze ex spogliarelliste o reduci dell'Isola dei Famosi.