domenica 24 ottobre 2010

Dieci di sera, strada



Asfalto. Linea continua, linea spezzata.
Limpida trasparenza di luna a inondare l'aria.
Dieci di sera, sulla strada.

Pedala, pedala, pedala sulla bicicletta bianca, vecchia bicicletta un tempo della mamma. Sciarpa annodata che copre il naso, naso freddo d'autunno.
Mentre pedala segue la luna, ipnotica e perlacea, pura nella luce riflessa che spande senza metro.
La ruota scorre, nero nel nero, asfalto nella notte, copertone nell'asfalto, nero nella mente e nel petto, nero che si scioglie in catrame, in sangue che non scorre, pietrificata in una tristezza di pesante depressione.
La mente scivola, i pensieri si mangiano la coda, risuonano nella mente ululando.
Gli occhi scappano sulla strada; rapidi fuggono alla luna, bevono la luce che si specchia nelle pupille.

“signora luna, che mi accompagni, per tutto il mondo”
voce sommessa e fiato spezzato dalla corsa
“puoi tu spiegare, qual'è la strada, che porta a me”
risuona debolmente nella strada deserta, rimbalzando sugli specchietti delle automobili ferme al buio dei lampioni spenti
“non me ne venga, signora luna, se non ho amato”
memoria che vacilla, la canzone serpeggia tra i versi disordinatamente
e poi ricomincia
“signora luna, che mi accompagni, per tutto il mondo”
rauca e bassa

la luce è riflessa dall'acciaio del manubrio. Pare un fantasma scuro, perso nella periferia della città, circondata da quella strana luce notturna, un'aura debole attorno a lei.
Pedala pedala pedala
mente distratta
la luna nascosta dietro un albero, il buio. Splendore spento.
due fari senza precedenza, veloci, troppo veloci

Asfalto.

domenica 17 ottobre 2010

La Leggenda





-Avete capito?
Il silenzio. Mancano solo i grilli e la palla di paglia che rotola e sarebbe una scena da cartone animato: la classe è ammutolita.
Ha guardato per venti minuti buoni quella professoressa nel suo contorcersi in una dimostrazione articolata in mille angoli e trabocchetti, e, giurano tutti, hanno pure provato a capire.
Ma, lo giurano altrettanto, per loro quella roba là è arabo antico. Aggiungerei che è di qualche dialetto delle montagne, il dialetto. Pronuncia stretta.
La campanella suona dopo un minuto di silenzio -lutto e dovuto rispetto ai neuroni ormai fusi dei venticinque ragazzi-.
-Bene, allora dopodomani verifica. Arrivederci.- e prima che qualcuno, anche la peggior lecchina, potesse aprir bocca, scompare fuori dalla porta.
Trauma.
La classe è ridotta ad un acquario: ventidue pesci muti e immobili scrutano i vetri delle finestre pensando a quanto bene si starebbe là fuori. Un secondo dopo si sta per marciare sul piede di guerra: "quella stronza!" "non ho capito niente" crisi di panico e urletti isterici, chi digita in fretta un sms alla mamma "chiama il prof di ripetizioni, mà, che ho verifica di mate dopodomani", chi, ancora perso, fissa la lavagna, quasi sperando che il problema si sciolga, quel nodo di circonferenza si slacci e liberi la soluzione -e fatemi capire questa dannata materia, è matematica, non astronomia applicata!- e nessuno si accorge di lui.
Entra, e in un bisbiglio saluta la classe.
Posa cartella e soprabito sulla cattedra, siede, firma il registro, si guarda intorno -il caos continua-, allora batte leggermente la penna sul tavolo.
La classe tace.
"Buongiorno. Oggi manca il vostro professore, avete due ore di supplenza con me -si volta alla lavagna- Avete fatto matematica?"
Un mugolio sommesso conferma.
Lui si alza, osserva la dimostrazione scritta in gesso: mano sotto il mento, espressione assorta, gambe incrociate.
Dopo un minuto, si gira verso la classe.
"Qualcuno di voi ha capito qualcosa, di questa dimostrazione?"
Negano, rassegnati, le teste chine.
"Nemmeno io".
Alzano lo sguardo, increduli.
Un professore? Un professore di matematica che non capisce una dimostrazione? Non è possibile, anzi -rimaniamo in tema- è un risultato non accettabile, ma che storie sono!
Lui prende il cancellino e cancella ogni traccia di quei geroglifici.
Ora è tutto tranquillo, l'incubo è scomparso, i ragazzi, vedono di nuovo la pace su quella lastra nera.
Per chi vuole -dice lui- io ora la rispiego. Se non vi va di ascoltare, fate qualsiasi altra cosa, ma in silenzio.
Dal momento in cui posa il gesso sull'ardesia, la classe si incanta: sono tutti presi in una bolla di incantesimo di numeri, un tuffo in un oceano di somme, formule, equazioni ed espressioni.
Prima sembrava una fossa, quell'oceano!
Piena di scogli, mare dove naufragare senza aiuti, abissi senza luce, subisso di insufficienze.
Ed ora, mentre lui, tranquillamente, parla della circonferenza e delle rette che la intersecano, l'oceano appare meraviglioso, senza limiti, limpido e sicuro, galleggiare è così facile, e appena senti che stai per andare sotto, pahf!, un salvagente appare a sollevarti.
Lui va avanti, il gesso viaggia, disegna rette, marca punti, gratta via quella ruggine che si era attaccata al cervello dei ragazzi, gratta via il dubbio, gratta via la sfiducia, la paura di affondare nelle acque numeriche.
Conclude, la lavagna ordinatamente scarabocchiata di numeri, un disegno, un paio di formule. Dieci minuti ed è fatta.
Ecco, a me l'hanno insegnata così -dice piano- avete capito qualcosa?
Si siede, in attesa di risposte, scruta la classe.
Mentre attende reazioni, seduto sulla cattedra, elegantemente, studia la classe.
Aspettando sentenze, seduto sul bordo della cattedra -gambe accavallate e braccia incrociate- elegantemente vestito in giacca e cravatta blu -camicia azzurra-, contempla la classe, cercando negli occhi di ognuno qualche perplessità, qualche segno di vita.
E loro, quasi a bocca aperta, lo fissano.
Lo guardano stupefatti, lo osservano, cercano di vedere se ha delle ali, sotto la giacca, una coda, delle corna, vogliono capire se è umano -forse ha dei fili, è un robot?-.
Capelli sporcati dal gesso e la giacca con la manica imbiancata, frutto del troppo entusiasmo nella spiegazione, gli occhi che brillavano quando era arrivato alla fine -missione compiuta-, un accenno di sorriso soddisfatto nel vedere lo sguardo convinto anche di Rossella, la frana della matematica del liceo -rimandata ogni anno con il 4-, no, davvero: non poteva essere umano.
E poi un coro di sì, un'ondata di cenni con la testa, sorrisi, gioia di aver finalmente capito -ma allora non sono così stupido, la matematica la so fare!-.
E Il Professore -perchè ormai lo chiameranno sempre così, i ragazzi della 5H, la classe più impedita in matematica di tutto il liceo scienti-figo di Lanzé, comune vicino a Lanzano, dove la media delle materie scientifiche è 8 in ogni classe-, felice di questo successo, sposta lo sguardo tra gli alunni, poi guarda in un angolo, ultima fila a sinistra, di fianco alla finestra.
Una ragazza, stravolta, ne è rimasta incantata.
Proprio lei, che aveva rischiato di essere rimandata in quella materia ogni anno, salvandosi sempre per il rotto della cuffia, lei che odiava aritmetica, algebra e geometria alla morte, e che piangeva di rabbia su quei maledetti libri che le portavano solo delusioni, lei che prima di ogni ora di matematica aveva un groppo allo stomaco, e dopo voleva solo aprire la finestra e buttarsi giù, aveva capito.
Aveva capito, sì, le si era accesa la famosa lampadina, si era aperta la porta, aveva trovato il salvagente a cui aggrapparsi.
Quella ragazza sarebbe uscita dal liceo scientifico a pieni voti, con una seconda prova impeccabile, e si sarebbe poi iscritta alla facoltà di matematica.
Quella ragazza ero io.




[va detto, anche se con poca convinzione: questa è una storia inventata, ogni riferimento a persone realmente esistenti è puramente casuale]

sabato 9 ottobre 2010

Coscienza




Ti odio. Ti odio, ti odio, ti odio ancora e ti odierò fino a quando non ti avrò più, fino a quando sarà scivolata via dal mio sangue ogni goccia di te. Quando le vene sporgeranno, bluastre, dalla pelle secca e ruvida, sfiancate e consumate dal sangue non più giovane, allora ti rimpiangerò, in un rimorso senza fondo.

Mi torci dentro, sconvolgendomi le budella: mi sparpagli i pensieri, spezzandomi le frasi in parole disordinate, come fogli che il vento, entrando da una finestra rotta, in autunno, spazza da una scrivania, nella polvere di una stanza buia, in una casa nuova già abbandonata, insudiciata da un tempo breve già passato.
Sono io che sono te? Sei tu che sei me?
Esisto, io, se non ho te, ora, adesso, in questo momento?

Sono tua: seme che semini passando sul mondo. Le mie radici, solo loro, le mie, mi separeranno da te, sarò io, tranciando lentamente ogni legame, in una tua agonia silenziosa che mi affanna, solo loro, all'uscire da me, segneranno la tua fine, la fine del tuo impero, la fine del tuo dominio, della mia sottomissione, segni del mio corpo per sempre incisi su di me a testimoniarlo, segni della tua sconfitta, segni della mia sconfitta.
Mi stringi nella tua morsa, finto sogno di libertà, finta apparenza di frivolezza. Mi stritoli, impedendomi di respirare nei giorni che scorrono troppo veloci, ma che non passano mai.
Sei la mia tortura, ma senza di te, cosa sono: una giovane senza giovinezza, cos'è?
Una giovane vecchia, vecchia, già vecchia e marcia dentro, no.
Sono un guscio vuoto: cos'è la vecchiaia, senza la giovinezza a precederla?
Cos'è la saggezza, senza l'esperienza che l'ha costruita?
Cosa sono io, se non ho te? Sono corteccia di betulla, fragile. Corteccia secca. Vuota.

Senza di te, saltate le tappe del percorso: è persa la via, sono ferma e senza aiuti in una nebbia che nasconde il sentiero, nasconde l'andata, mentre il ritorno si dissolve.
Monca, mancante di un pezzo di vita, incompleta, inutile, rotta, in attesa inutile della pace, che non arriverà, non potrà arrivare, non mi potrà trovare. La strada dell'esperienza: la giovinezza, abbandonata. È persa, persa anche l'esperienza. La vita vissuta. La vita diventa sospesa, sfiancata e senza aiuto nel cercare di raggiungere una fine che tarda ad arrivare, ferma nel movimento impercettibile, senza sapere dove andare.

Non posso eliminarti: ti devo sopportare, soggiogata dalla tua pesantezza che mi schiaccia a terra, pressata da quelle finte ali della gioventù, decantate ali della fresca leggerezza, da quelle cortine di piombo dipinto di azzurro che non mi fanno scappare: sono inserite nella mia carne, si scioglieranno in polvere, si scioglieranno i nodi che le tengono assieme, con il tempo: i complessi, le paturnie: si infrangeranno mano a mano mentre cammino, mentre striscio in una direzione che imparo.
Non posso sfilarle, quelle ali, non posso liberarmene e scappare. Devo attendere, affrontarti, combattere allo stremo fino a che, sfinita dalla battaglia, invecchiata, ti guarderò all'orizzonte allontanarti per sempre, mentre una malinconia si diffonde imperante.
Sono prigioniera di me stessa; sono prigioniera della mia giovinezza.