domenica 25 ottobre 2009

Cibo Amore Mio



Un giorno, nel mezzo di un lungo giro di shopping con conseguenti lamentele riguardanti taglie, misure, pancia, aderenze, strettezze, fianchi, cosce, debordanze posteriori e anteriori e infinite promesse di mettermi a dieta, un amico portato al limite dell’esasperazione mi suggerì una tecnica per non cedere alle golose tentazioni che il cibo languidamente mi lancia e alle quali costantemente cedo.
Il segreto, mi disse, consisteva nel rilassarmi ad ogni stimolo di fame, e nell’ immaginare vividamente il cibo del desiderio. Una tavoletta di cioccolato, per esempio, squadrata e perfetta, liscia, dolce e appetitosa, profumata e irresistibile. Immaginarla per bene, dunque, e pensarmi mentre per saziare ogni mio desiderio la agguanto, pronta a gustarla lentamente quadretto dopo quadretto, saziandomi di dolcezze e calorie, avvolta dal benessere intimo e rilassante che solo il rompere una dieta di nascosto accoccolata sul divano può esprimere degnamente.
Il trucco era poi di convincermi che al primo boccone il sapore di tanto desiderata grazia fosse qualcosa di disgustosamente insopportabile, qualche spauracchio della tavola, qualcosa di incoraggiante al vomito, per dire –“cosa di fa schifo, ma proprio schifo schifo che non riesci a sopportare?” “fegato” “bene, allora immagina fegato”- . In tal maniera il cervello si convince che il sapore della cioccolata è in realtá quello disgustoso del fegato, cosí la voglia passa.
Da quel giorno ho sperimentato, provato, tentato, e devo orgogliosamente esprimere la soddisfazione di aver raggiunto un risultato. Purtroppo, però, va aggiunto che qual risultato non e’ esattamente quello che avrei dovuto ottenere dopo cotanto esercizio e impegno psicofisico.
Adesso amo il fegato.

giovedì 8 ottobre 2009

Sasso II




"A dirla tutta, quel sasso non era veramente questa gran cosa. Era un pezzo di pietra qualunque. Viveva la sua normale vita da sasso, ogni tanto finiva in una pozzanghera, oppure capitava che sprofondasse sotto terra, o veniva lanciato da qualche ragazzetto balordo. Era un sasso normale: senza crepe ma non liscio, senza bozzi ma non perfetto.
Era anche alquanto noioso, se devo proprio aggiungere, e vorrei anche rendere noto che…”
Sasso, taci. Abbiamo detto che sei speciale?
"...Si"
Bravo, quindi sottoponiti alle nostre moine, chiudi il becco mettiti l’animo in pace, dacci delle comuniste staliniste, fa’ quello che ti pare, ma non azzardarti ad aprir bocca di nuovo.Lasciati lodare, sii meno duro – ok non è la parola più adeguata per un sasso – con te stesso.
Ci siamo noi a raccontarti, ora.

Dicevamo, il sasso è speciale.
Lo guardi, effettivamente non noti nulla di particolare.
E’ ben costruito da dentro, solido fino in fondo, senza imperfezioni, saldo e concreto come una piccola roccafotrte.
Ma un sasso comune, sotto questa analisi superficiale, un sasso come tanti suoi compagni sassi di questo sassoso mondo.
Se qualcuno ricorda, però in un certo racconto, una volpe dice a un piccolo principe che l’essenziale è invisibile agli occhi. E chi a questo mondo è mai riuscito a vedere un pensiero? Chi è mai riuscito a cogliere, anche solo di sfuggita, la famigerata nuvoletta che esce dal cervello con il pensiero disegnato dentro?
Nessuno.
Ma quanti di noi hanno saputo indovinare i sentimenti di una persona basandosi su quello che aveva dentro, nascosto alle nostre pupille?
Con il nostro sasso la storia è proprio quella: insospettabile e invisibile, da lui uscivano continuamente pensieri, osservazioni, ragionamenti silenziosi, quantopiù invisibili agli occhi fosse possibile.
Il nostro sasso pensava. – "e capirai" / sasso, zitto./-
Se n’era acorto stupidamente, in un momento alquanto scomodo, mentre un ragazzo lo raccoglieva da terra per scagliarlo contro una vetrina. Era in quel periodo in cui saso viveva in città – bei tempi- ed era il’68. Studenti si riversavano nelle strade a manifestare, e proprio quel giorno – 24 settembre 1968 – un corteo attraversava le strade al ritmo di cori e sventolamenti di bandiere. Un ragazzo –sciocco- preso dall’impeto ribelle, aveva raccolto Sasso e, dopo averlo palleggiato qualche minuto, si stava preparando a scagliarlo.


Fine….per ora

martedì 6 ottobre 2009

Sasso




Mentre sono qui agli Antipodi, tengo una corrispondenza sfrenata con mia nonna. Più o meno ogni giorno mi arriva una sua lettera, e tra un abbraccio scritto e la cronaca di Lanzano, è cominciato un gioco a puntate. La nonna ha iniziato...

Ho trovato un sasso, grosso come due pugni, levigato dall'acqua che in certi punti ha insistito di più ed ha perciò una rientranza. Non è un sasso come gli altri: questo ha una vita, e si vede.

Oche (parte II)



Dopo l’incidente, l’oco superstite non si riprese più. Era solo, e non riusciva a capacitarsene; la sua ombra, il suo amico, il suo compare, compagno, fratello, era sparito, e lui ora vagava senza meta per il giardino, starnazzando per poi, spaventato al non udire alcun eco o risposta, tacere e chiudersi in una muta desolazione. Aveva iniziato a passare le ore fissando il cancello automatico, scagliandoglisi contro con tumultuosa furia ad ogni suo movimento. Il perché lo facesse, è un mistero la cui risposta non è data a sapere.
Era diventato la morte su due zampe palmate, e depresso ciondolava inerme e senza scopo, se non quello di distruggere tutto ciò che attraversasse il suo cammino –ovviamente i membri umani della famiglia erano inclusi in ciò che disturbava la sua quiete tormentata-.
Per cercare di risollevargli il morale e per evitare che si suicidasse buttandosi in piscina anche lui, i miei gli comprarono un nuovo compagno: un’ altra ochetta gialla e batuffolosa allietò il giardino con i suoi pigolii e ballonzolamenti sbilenchi.
Nei giorni a seguire l’arrivo, la piccola palmata era scortata ovunque da un bipede dotato di pollice opponibile e bastone da pastore. Era troppa la paura che il terminator alato decidesse di compiere un atto omicida e distruggere la piccola senza lasciarne traccia, così a turno seguivamo il giovane paperotto nelle sue esplorazioni in giardino, pronti a difenderlo strenuamente e imporci tra lui e l’oco psicopatico pur di salvarlo –e credetemi, per mettersi tra quella specie di tritacarne con il becco e la sua preda è dimostrazione di strepitoso coraggio-.
Ma le nostre erano paure infondate: Lui, immerso nella nebbia della sua disperazione, non lo badava neanche di striscio, limitandosi a fissare dritto avanti a se, attento solo al cancello –sempre che non facesse movimenti sospetti-. Gli unici momenti in cui dimostrava un minimo interesse nei confronti del nuovo venuto era quando lo beccava ferocemente sulla testa, tranciando alla radice ogni tentativo di avvicinamento.
E in questo il papero tristo dimostrava un certo masochismo oltre a un’idiozia di fondo, dato che dopo due giorni non aveva ancora capito che se si azzardava a sfiorare il piccolo, immediatamente gli sarebbe arrivata una bastonata dal custode di turno. Ma si sa, le oche son oche, che ci possiamo fare.
Dopo breve tempo, però, la situazione cambiò: il bipede e pennuto carabiniere temuto da ogni cancello presente nel giardino decise di prendere come successore il suo giovane simile, permettendogli di avvicinarsi e farsi prendere sotto la sua ala protettiva senza rischiare di essere crudelmente assassinato. Passeggiava con lui, raccontandogli delle insidie della vita e discutendo degli interrogativi dell’universo, mentre il giovane palmato gli trotterellava dietro per tenersi al passo. Li chiamammo Socrate e Platone.

Un giorno non troppo tempo dopo l'arrivo del suo seguace, Socrate morì avvelenato –e tutto torna-, e il giovane Platone rimase solo. Per evitargli la depressione in così tenera età, i miei portarono precipitosamente a casa un quarto pulcino.
Maschio anche lui, come si scoprì in seguito. Abbiamo fatto l’amplein: quattro su quattro ochi maschi, e, a dispetto dei nomi, stupidi fin nel profondo del midollo. Mai viste cose simili.
Comunque, il piccolo -subito chiamato Aristotele, tanto per continuare la serie- era arrivato e si era velocemente ambientato con il nuovo amico. Entrambi i bipedi erano ancora in giovane e giallo piumata età e, evidentemente, necessitavano di una figura materna o paterna che li guidasse nella retta via. Sembravano un po’ sbandati e sperduti mentre la notte si accoccolavano l’uno vicino all’altro sentendosi –ne son sicura- deleritti e abbandonati in una terra abitata da fantasmi.
Pare però che mia mamma in quel periodo avesse cominciato a fargli “pio pio”. Letteralmente.
Voglio dire, ogni volta che usciva di casa –e mia mamma, santa donna, esce di casa con una frequenza di due volte all’ora per scarrozzare la figliolanza- e percorreva in macchina il viale nel giardino, cacciava la testa fuori dal finestrino e con un falsetto perforante lanciava il simpatico richiamo. Pio pio, e pio pio, e dagli con i pio pio, i pennuti, felici di sentirsi finalmente chiamati affettuosamente da qualcuno, si convinsero che quello fosse il verso materno.
Il punto è che non iniziarono a seguire mia mamma. Magari.
Iniziarono a seguire la macchina di mia mamma, dalla quale la genitrice si sporgeva per lanciare le gioiose grida; la somiglianza tra una Toyota e un’oca del Campidoglio, devo dire, mi sfugge tutt’ora, ma gli oscuri meccanismi che regolano l'intricata mente delle oche sono qualcosa di cui non sono minimamente esperta, e che quindi non pretendo di riuscire a comprendere. Comunque sia, i gentili richiami che mia mamma mandava ai suoi protetti con le ali valsero allaToyota la perenne devozione dei due.

La scena si ripete tutt’ora un infinito numero di volte al giorno –tante quante le volte in cui mia mamma esce di casa-, ed è la seguente:
non appena i due pennuti avvertono qualche vibrazione del terreno che possa fargli capire che c’è una cosa con le ruote in avvicinamento, si bloccano e volgono i lunghi colli verso il cancello. Attendono.
Se la macchina sta uscendo dal giardino, si limitano a zampettarle incontro prima che il cancello si apra e la inghiotta –di solito vince il cancello-, per poi uscire anche loro, un po’ spiazzate dal vedere che l’automobile corre molto veloce, rassegnarsi e, se il cancello si è già richiuso, sedersi diligentemente ad aspettare la mamma.
Se la macchina sta arrivando, invece, il tutto diventa più scenografico: dopo essersi bloccate, la riconoscono immediatamente, anche senza vederla. Non appena il cancello automatico comincia la sua lenta apertura e il muso dell’automobile viene scorto, i due pennuti entrano i fibrillazione e corrono ad ali spiegate, accompagnando la corsa da un festoso starnazzare di piacere, ad accogliere la mamma di ritorno.
E questo lo fanno anche se sono dalla parte opposta del giardino. Generalmente è meglio che siano ben lontane, perché se sono già nelle vicinanze, comode comode si piazzano davanti alla macchina, già pronte a farle compagnia e impedendole di ripartire senza stenderle.
Corsa fino al cancello, comunque, è il punto numero uno. Punto numero due consiste nell’accompagnare la mamma a casa: tenendosi alle calcagna, ricominciano la corsa a velocità folle, ali sempre spalancate che talvolta concedono lo spiccare in volo –basso, però- , vociare con volume al massimo. E mia mamma che guida, rassegnata e quasi pentita. Provando a riparare al danno, non pigola più dal finestrino, ma tutto è inutile ormai: i due pennuti seguono perennemente e devotamente la macchina con la loro corsa forsennata fino al parcheggio, dove –punto tre, come si diceva sopra, fare compagnia alla mamma- le si stabiliscono attorno soddisfatte, becchettandola su tutte le fiancate per dimostrare il loro affetto.
Hanno anche dato il via alla simpatica operazione di levare –attaccandosi con il becco ad un’estremità e tirando con tutte le forze e l’ostinazione possibile- una rifinitura di gomma che penso servisse per attutire lo sbattere del bagagliaio. Grazie a questa loro privata occupazione, adesso la nostra macchina ha anche la coda.
Ovviamente, mentre circondano di affetto la loro genitrice quattroruote, circondano anche la casa di abbondanti scacazzamenti.

Ora i nostri Platone e Aristotele godono di ottima salute –perlomeno fisica, perché su quella mentale ci sono alcuni dubbi-, sono bianchi e panciuti ma bene in forma grazie agli sforzi olimpici che compiono ogni giorno, amano alla follia la loro mamma e, purtroppo, sono già troppo vecchi per essere messi in forno.