mercoledì 31 marzo 2010

L'orto



La frase che dà inizio alla parata è “xe ora che scumisiemo a far qualcossa par quel orto”, tradotto: “è ora di cominciare a far qualcosa per quell'orto”. Questa locuzione rappresenta il preludio all'odissea, l'annuncio dell'epopea, il segnale della sventura che sta per abbattersi sulla nostra casa.

Per rendere meglio l'idea, però, va prima creata un po' di atmosfera.
Come ormai si sa, la mia famiglia e i relativi animali abita a Lanzano, una sperduta comunità di origini agricole, che risulta essere un perfetto esempio di “morte civile” veneta. Va precisato, però, che noi non abitiamo a Lanzano centro.
Noi siamo fuori.
In mezzo ai campi.
Voglio dire, se abitassimo davanti alla chiesa non potremmo tenere oche da guardia; la rumorosa happy family sarebbe presto cacciata; l'inquinamento della cittadella aumenterebbe esponenzialmente nel giro di una settimana, a causa dei continui spostamenti in macchina che mia mamma è costretta a fare.
Dunque abitiamo in campagna. Grande giardino, le suddette oche da guardia, nidi di vespe ovunque e, nei primi tempi, anche un discreto giro di pantegane -vale a dire grossi ratti-, che fu prontamente sterminato dall'armata felina che pattuglia la proprietà.
Oltre a tutto ciò, un grande orto.
È questo il più grande orgoglio di mio papà: il suo amato orto, di cui quando parla gli si illuminano gli occhi, nel quale passa le giornate più afose a seminare tuberi, con il quale tormenta la vita dei tre figli ammonendoli che i peperoni si stanno seccando e così lanciando l'implicito ordine: “vai a dargli da bere”.
Quest'orto, va precisato, è bello. È stato curato, studiato, seminato, arato per anni. Un esercito di giardinieri è intervenuto a restaurarlo più volte, creando deliziosi corridoi con pergole tra le aiuole e le rose e cambiando o rinforzando i pali su i quali si arrampicano le piante di fagioli.
Due spiazzi di terra sono occupati da coltivazioni di fiori selvatici che la mamma -curatrice estetica del complesso- semina in estate. L'uva rende quel posto dolce in autunno, e le fragole ai lati delle aiuole lo colorano in estate, sfumando dai toni del verde al rosso acceso. In inverno si spegne, ma quando è coperto dalla neve pare un giardino segreto, magicamente.

È la primavera, il problema.
La prima giornata di sole, di solito, con una temperatura che supera quei dodici-tredici gradi che a causa del freddo impediscono di uscire in giardino alla parte in letargo di un contadino della domenica. La mattina di tale giorno, mentre i figli sono a scuola, il pater familias parte per un'esplorazione. Armato di tazzina di caffè, dopo colazione gironzola guardando lo stato dell'orto e scuotendo la testa, per poi fare un giro completo del giardino iniziando a macchinare come riprendere il controllo della situazione ortobotanica casalinga. La moglie, preoccupata ed armata anch'essa della sua tazzina di caffè -verde, la tazzina, senza manico a causa di una sfortunata caduta dalla lavastoviglie-, lo guarda dalla porta finestra, preannunciando guai.
È però solo all'ora di pranzo che viene sganciata la bomba: “xe ora che scumissiemo a far qualcossa par quell'orto”.
Sguardi di terrore circolano attorno al tavolo.
Il “far qualcossa par l'orto” non è una frase traducibile con una sola propostizione in italiano: essa è però riportabile attraverso tre diverse locuzioni.

Il primo significato, il più esplicito, con il quale si può spiegare cotanta minaccia è “bisogna cominciare a lavorare in giardino”. Armarsi quindi di forconi, pale, stivali di gomma e vecchi maglioni, per passare qualche ora a smuovere la terra, estirpare le vecchie piante, togliere le erbacce e dissodare il terreno, dacché in questa campagna veneta pare che le pietre mantengano un ritmo di riproduzione vertiginoso e costante. Leggenda narra che siano vere e proprie patate, dimenticate dall'agricoltore e -indispettite da tale dimenticanza- tramutatesi in sassi per rompere le lame dell'aratro, obbligando così lo sfortunato contadino ad arare i campi a mano. La questione si risolve dunque lavorando in giardino, le mani nel fango e la terra sotto le unghie, il tutto in religioso silenzio, salvo eccezionali insulti ai sassi che impediscono l'attività.
Comunque sia, quest'anno l'attività di estirpazione ha raggiunto livelli da record: mai, infatti, si era visto papà estirpare alberi di melanzane.
Alberi, dico sul serio.
Le innocenti piantine, non essendo state estirpate alla fine della stagione, avevano continuato la miracolosa crescita, probabilmente anche assorbendo tutto il nutrimento presente sul terreno che sarebbe stato destinato a far crescere giovani virgulti per il prossimo decennio.

Il secondo significato è la semina.
Può sembrare un'innocente attività orticola, ma non è così. Alla semina è precedente un'attenta pianificazione: dove porre le piante? I criteri per la sistemazione (anche se “sistemazione” poi non è assolutamente il termine adatto: consociazione o rotazione delle piantine sarebbe più confacente) sono vari: influiscono aspetto estetico (il giallo dei peperoni si intona al viola delle melanzane?), strategico (quanto pesa una cesta di pomodori rispetto a del radicchio? Il radicchio viene quindi piantato nell'aiuola meno lontana dalla porta di casa), temporale, culturale (il contadino veneto è dotto di proverbi agricoli quali “a San Valentin se verse l'ortzin”, “se te voi un bon bisaro, semena in febraro”, “Marzo ventisá, april temperá, contadin fortuná”, i quali vengono ripetuti a ruota nei periodi di semina). Influisce poi ovviamente il lato biologico e scientifico, e infine quello bellico: la guerra contro i parassiti non è mai finita.
Alla semina segue la fertilizzazione, e qui preferirei stendere un velo pietoso.

Ultima ma non meno importante delle tre frasi incluse nel verbo contadino è “rassettato l'orto come si deve, adesso bisogna mantenerlo in questo stato”.
Questo non è facile.
Non solo le piante varie crescono e -secondo me- si spostano durante la notte autonomamente. Ma i sassi prolificano, le erbacce invadono, le aiuole cedono. Bisogna quindi quotidianamente passare a rassettare, strappare, tagliare, e ovviamente raccogliere prima che i frutti del duro lavoro vengano mangiati, crescano smisuratamente fino a raggiungere i cinque chili di peso e diventare immangiabili, o cadano miseramente riempendosi di buchi di insetti e marciume.
Va inoltre fatta la guardia perché le oche non decidano che lo spuntino pomeridiano consiste in radicchio fresco.
Questo era successo l'anno scorso, quando ancora non conoscevamo bene i nostri pennuti. Il radicchio era stato amorosamente cresciuto, papà l'aveva coltivato fin dai semi. Piccoli e teneri virgulti mettevano radici e sviluppavano gli embrioni di foglia.
Erano stati piantati, rovinando vertebre e spine dorsali, coperti da teli e protetti come cuccioli indifesi. Terrorizzati dallo stomaco omicida dei nostri pennuti da guardia, tenevamo sotto costante controllo l'orto, preoccupati che da un momento all'altro il lungo lavoro di papà potesse sparire nel becco delle due oche.
Vedendo che la coppia passeggiava nell'orto senza mostrare interesse per i piccoli radicchietti, ci rilassammo. Ormai i radicchietti erano diventati radicchioni, prosperosi cespi di foglie rigogliose, pensavamo troppo grandi per indurre i palmati in tentazione. Scemi noi.
Un pomeriggio, papà passeggiava. Volse lo sguardo all'aiuola dei protetti, e vi trovò il nulla. Tabula rasa. Piazza pulita. Solo due grossi pennuti bianchi accovacciati, che senza riuscire ad alzarsi per lo stomaco pieno, lo guardavano soddisfatti: avevano aspettato che il raccolto diventasse abbondante, per poi dedicarsi a una soddisfacente abbuffata notturna.
E li chiamiamo stupidi...