lunedì 1 novembre 2010

Primo Novembre



Primo novembre.
Sto suonando da ore.
Ore e ore e ore e ore seduta al seggiolino del pianoforte dello studio, battendo, sbattendo forte i tasti con le mie dita lunghe e allenate dallo studio, ma niente. Neanche stavolta.
Anche se, incatenata a sedere, continuo la mia esecuzione, lo scoraggiamento inizia a spandersi dentro me, come ogni volta, come ogni anno. Lo si vede: nero, questo sentire crudele e ostinato che scende piano nel corpo, come un fungo di inchiostro in un bicchiere d'acqua.
Ma avanti sempre. Mi sentiranno. Note su note, cascate di note, fiumi che debordano di note, alluvioni di note con bombardamenti di pedale, le braccia indurite, le dita esauste.

Poi, la porta si apre!, e mio padre entra nella stanza, gli occhi chini su un foglio di carta, passo lento assorto nei suoi pensieri.

Un esplosione di calore freddo nel petto e nella pancia!, perdo il fiato, e con un sussulto continuo il mio suonare, dimenticando la stanchezza: bombardo la tastiera di accordi, facendo scoppiare quell'illusione felice che mi cresce di nuovo, veloce, e risuona sui tasti la risata che mi esplode in bocca, in scivoli di scale cromatiche, e virtuosismi sciocchi per quella speranza felice che è tornata, mi risucchia l'ingannevole esultanza della possibilità

passi fino allo scaffale,

continuo, continuo, continuo
ascoltami, sentimi, guardami, ti prego guardami, sono qui, senti, senti!

fruga nei cassetti alla ricerca di qualcosa, occhi fissi nel materiale

Non ti sente, non ti sente, non ti sentirà: lo scoraggiamento continua la sua opera
E la risata si inizia a spegnere, rapita dalla consapevolezza, ma la forzo: diventa meccanica; la rassegnazione striscia subdola a rimpiazzare la gioia. Cerco di proteggerla, nucleo di forza che ancora brilla, assalito dal nero carbone nero; l'aspettativa silenziosa si spegne, ma io continuo, continuo, testarda, e cerco di spegnere il dubbio, cerco di negare l'evidenza, contrastando il nero che si sparge dentro di me, combattendo una battaglia vana, uno scontro selvaggio e disperato, con la furia di chi sa che ne uscirà sconfitto
Senza tregua, sbagli, errori, la musica non si arresta, non si placa, perde il tempo, selvaggia e disperata, incessante nella fuga dalla realtà, spietata realtà, la melodia soffre e strilla di questa tortura brutale, ma non l'ascolto, e continuo, continuo, continuo, continuo

Si gira un attimo, distratto, verso il pianoforte nell'angolo.
Luce spenta da tanto su quella tastiera muta e impolverata. I libri ancora lì, mummificati nel tempo che passa. Uno era nuovo; è ancora chiuso, intatto. Il seggiolino su cui nessuno si siede, da allora.
È passato tanto tempo.
Un sospiro, poi gli occhi tornano nei cassetti

E la speranza si tramuta in un urlo, sopraffatta dall'angoscia
no, ascoltami, sono qui, sono io, sto suonando per te, papà, papà sono qui
mentre le mani su cui quasi perdo il controllo per la foga ricominciano a svanire, piano
no, no, ancora un attimo, ancora un attimo, mi sentirà, questa volta mi sentirà, ne sono certa, aspetta, aspetta, no

le dita, bianche, cercano ancora la tastiera d'avorio, scomparendo centimetro dopo centimetro, i polsi, le braccia
mute grida senza parole, ormai
il piede non trova più il pedale, sciogliendosi nell'aria
inesorabile legge dei fantasmi, di mai essere né visti né ascoltati
sola una traccia invisibile di nero scoraggiamento, ultima a disperdersi, nulla nel nulla, immateriale nell'aria dissolto.
Non c'è più niente alla tastiera.


Passi lenti, la porta si richiude.
Silenzio.