mercoledì 14 aprile 2010

Il Rapido



Il rapido va: slitta, scivola, binari, terra, sassi, case, tutto passa e svanisce, non perde un attimo. Attorno a lui c'è una giornata che si sta svegliando, ma il rapido non si ferma, non si arresta, corre, scappa, fugge. Velocità costante, sfreccia senza posa, corre senza pausa, scappa dalla stazione precedente, poche curve, linee rette, fugge appiattito al suolo per non sentire il vento che gli soffia contro, corre, scappa, fugge. Macchine come topi impazziti, nelle corsie delle strade vicine ai binari ansimano al suo fianco per stargli al passo, ma il rapido corre, scappa, fugge.
Sono le sette di mattina, il convoglio è abbastanza pieno, riempitosi in fretta alla stazione nella pressione delle valigie attraverso le porte, il caos del ritardo, la corsa contro il tempo per saltare dentro e non rimanere a piedi; nella carrozza di seconda classe c'è qualche posto vuoto, prontamente occupato da bagagli a mano degli altri passeggeri.
Qualche altro posto resta libero, nella carrozza di seconda classe. Il treno è partito precisamente alle 6.43, con dieci minuti esatti di ritardo.
Ora corre. Scappa. Fugge.

Lei gioca con l'anello al dito, lentamente. Guarda fuori dal finestrino -vetro graffiato di scritte oscene-, alla sua sinistra, seguendo placida dei residui dei sogni della notte precedente, ormai irrimediabilmente spenti e sgretolati, i loro frammenti volano fuori dal finestrino, risucchiati dall'aria vorticosa. Il cerchio d'argento, liscio, si avvita sulle falangi, scende e risale, ma non si sfila mai.
Lo sguardo di lei si dirige lontano, dove la lentezza dell'interno del rapido è pari a quella dalle montagne appena visibili nella foschia del mattino: macigni immensi che scorrono con la tranquillità della vecchiaia e la saggezza della vita vissuta. Per quanto il rapido scappi, il paesaggio è lo stesso per chilometri e chilometri, lo segue da lontano in uno sberleffo minaccioso. Nel mezzo, tra l'interno del treno e il paesaggio discosto, le cose strisciano via in una frazione di secondo: le case, gli alberi, persone, animali, campi, così piccoli e giovani di fianco alle montagne, loro sfrecciano seguendo il treno, scappano con lui, svaniscono in fretta come vanità umane. Il paesaggio lontano e saldo resiste, accompagnando il viaggiatore per chilometri. La terra rimane, il lontano non si raggiunge mai: si segue per un tempo infinito, ma lontano è, e rimane lontano. Poi a un certo punto -è un attimo- sei là, ed è finalmente vicino, e per poi sparire anche lui, dal finestrino del rapido che corre senza posa.

Pigramente una mano di passeggero passa su una pagina, seguendo le parole svogliatamente. Il libro posato sulle ginocchia pare eterno e destinato a non finire mai.
Un'altra mano, qualche sedile più in là, distratta carezza i capelli e una guancia a un bambino assonnato. Le dita scivolano lente, la pelle è morbida. Due fratelli, vanno a trovare il padre. La mamma non viene.
Una terza mano scivola sul vetro del finestrino, lenta, sciogliendo il vapore che si è formato per il freddo della mattina di Gennaio. Togliendo quella cortina di bianco, si scorge la rapidità delle cose che scivolano, un buco sulla velocità, uno sguardo al mondo là fuori, teso e scattante, mentre dentro tutto è allentato nella lentezza all'interno del rapido.

Il torpore rilassato di un addormentato abbandonato sul sedile, bocca aperta, respiro regolare. Emana lentezza dal sonno del viaggiatore esausto, uno stagno nero in cui sprofonda senza sogni né coscienza.
Fuori il sole -lontano, più lontano delle montagne- inizia a sorgere, ed è sfinente quanto sia millimetrico il suo salire, senza fretta, mentre il treno non si ferma ad ammirarlo e lo nasconde dietro le case che sorpassa, allineate e lontane dai binari, allineate e davanti al sole che sorge, lento. Colore sanguigno.
Dei passeggeri lo guardano, e per chi ha fretta di arrivare è esasperante il tempo che non passa, è logorante per chi legge i secondi dal quadrante dell'orologio, aspettare le ore per finire questo viaggio, ore che non passano, che si trascinano nella lentezza all'interno del rapido.

Una penna annota qualcosa su un'agenda. Inchiostro nero, foglio bianco a righe, indica una data di qualche anno passato. Lo scrittore si guarda attorno, svogliatamente, annota e si riperde a contemplare il paesaggio -il sole è ormai sorto- e i suoi compagni di carrozza.
Il controllore passa, trascinando un po' i piedi per l'intontimento stanco del mattino. La borsa gli sbatte su un fianco, mentre avanza chiedendo i biglietti, lento e stanco nella lentezza all'interno del rapido.

La lentezza del distratto che rinviene, del filo di pensiero che si taglia e ondeggia nel vuoto come un filo di ragnatela, per tornare alla carrozza di seconda classe e cercare il biglietto nella borsa.
La lentezza della pazienza di chi ha trovato un compagno di viaggio chiacchierone, pronto a raccontare in ogni particolare la vita, sua, della famiglia e del paese da cui proviene.
La lentezza dello sfiorire di tutti, secondo dopo secondo, mentre a bordo del rapido fuggono dal passato.
La lentezza di un attimo, in cui tutto si ferma.
La rapidità dello schianto.