martedì 28 luglio 2009

Beethoven e la Colomba






Vivo una vita magnifica.
Immagina di essere un piccione, un tordo, un merlo, insomma, uno di quei volatili che trovi un po' dappertutto.
Anzi, immagina di essere una colomba, come me: una giovanissima colomba di città.
Ora immagina cosa voglia dire vivere in piazza, avere un bel nido in centro, tutte le comodità a portata di planata, il palazzo da cui volare per la prima volta giusto di fianco a quello dove stai, il centro della LIPU giusto a cento metri, i giardini con il fossato dietro il centro LIPU.
E' una vita stupenda, perfetta, impeccabile.
Ho pure il conservatorio, davanti al nido.
Un gran casino a volte, già. Effettivamente là ci studiano, imparano, e per imparare devono pur sbagliare, no?
Comunque, se quel trombettista dell'aula 19 -giovedì dalle 17 alle 17.45- stonasse un po' meno, non sarebbe male.
E il violinista del secondo piano -martedì 14-14.30- potrebbe non fare tutti quegli acuti, che rovinano i timpani, a lungo andare.
Tutti i giorni, però, da qualsiasi aula, in qualsiasi orario, sento la bella musica, ah, quelle note che mi girano attorno, quelle pause che mi fanno frullare le ali mentre aspetto che la melodia continui, tutto quel qualcosa che non so descrivere -che diamine, sono una colomba, mica un usignolo- , e allora perdòno le peggiori stecche e mi ammorbidisco, mi rimbambisco, mi rincitrullisco, sto inerme ad ascoltare, le ali tese e immobili, sospesa in volo.
La prima volta che mi è capitato ero di ritorno da un giretto ai giardini.
Era quel periodo qualche mese fa in cui tubavo con un colombo, e passavo i giorni a svolazzare con lui sopra i tetti dei condomini, godendomi i tramonti e il panorama della città.
Insomma, quella volta era un tardo pomeriggio estivo, e volavo allegra verso il mio nido, quando ho sentito una musica pazzesca che veniva dal conservatorio.
Così, curiosa, ho voltato la coda alla casa e mi sono diretta verso le finestre della scuola.
Più mi avvicinavo, più la musica si sdoppiava, si triplicava, si diversificava, e da quell'insieme che mi pareva una singola matassa sentivo tante voci, basse, acute, era un bosco di mattina, con tutti che ciarlano appena svegliati, cinguettando per raccontarsi i sogni fatti.
Una planata ed ero nel chiostro della scuola.
Nel cortile, pieni di spartiti, sedie, strumenti, stava un gruppo di persone -tante, a dirla tutta, un centinaio- armate di archetti e violini, viole, violoncelli, poi ottoni, e legni, e c'era quel signore sui settant'anni, il direttore.
Era gracile, piccolino, con una camicia rossa -maniche rimboccate-.
Stava lì davanti, e controllava quella massa musicale in ogni suo respiro.
Sembrava impossibile che quell'omino, quel nonnino, fronteggiando cento persone, riuscisse a governare ogni cosa, impeccabile nei suoi comandi, deciso e pungolante, aizzando quegli ottoni, che da là in fondo non si sentivano –ascoltatevi!-.
Le viole seguivano ogni passaggio, andavano a tempo, non sbagliavano arcate. Le viole!
I violini poi parlavano, veramente, parlavano e non strillavano o strepitavano come al solito.
E, giuro, quella volta ho sentito i contrabbassi cantare. Di solito chi li sente, i contrabbassi, nel loro borbottio indistinto. Senti i violoncelli, perlopiù, quei mezzi tenori che si abbassano a fare pure i bassi -esibizionisti-. Io quella volta li sentivo cantare assieme, contrabbassi e violoncelli, con quel tipo là davanti che li incitava e li domava armato solo di bacchetta -venticinque centimetri di palissandro, impugnatura a lacrima-, impersonando la musica.
La impersonava, la viveva, passava a tutti le sue idee e le metteva in musica, comandando ogni suono.
Era trasfigurato nella sua concentrazione, si dannava di farli recitare e parlare, quegli strumenti, si tuffava nelle note, era dentro lo spartito, correva sicuro sulla fune -un rigo del pentagramma-, nessuna paura di cadere di sotto e perdere il controllo, pareva in estasi mentre giungevano agli ultimi accordi.
Ero appollaiata su un balcone a guardarli, infervorata, e appena finita la musica ho cercato di applaudire con tutte le mie forze, ottenendo solo un decollo dal davanzale e conseguente svolazzata in tondo sul cortile.
Mentre nel cortile il direttore si complimentava con i ragazzi, ho sentito un’altra musica, prima coperta dalla foga dell’orchestra.
Attirata dai suoni, ho ripreso il controllo delle ali e sono volata verso l’alto.
Su, più su, ancora un po’, fino alla finestra dell’aula 125.
Era il tramonto, e dal balcone di quell’aula si ha la più bella vista di tutto il conservatorio.
Ho sbirciato dentro, e ho visto un ragazzo di spalle, i capelli mezzi ricci -scuri e un po’ imbizzarriti-, chino su un pianoforte.
Sul leggio, un librone grosso, aperto su un Adagio.
Non la conoscevo, quella musica, ma da quel giorno ad oggi l’ho sentita tante volte –quanti pianisti la studiano!- , ed era la Patetica di Beethoven.
Lui la stava strimpellando, lo spartito era pulito, nessun segno di matita o diteggiatura, nessun appunto, non l’aveva mai studiata, si stava solo concedendo un momento di musica dopo qualche ora di studio –c’erano libri di studi, Clementi e Chopin, a fianco del leggio-.
Ho cambiato finestra, mi sono spostata su quella laterale, ecco, e da lì lo vedevo di profilo.
Non l’aveva proprio mai provata, quella parte, si vedeva da come stava seduto, da come respirava, da come si poneva verso di lei.
Gli occhi spalancati a cercare di leggere ogni nota, ogni sedicesimo, ogni voce, le mani che annaspavano leggermente, lui sbagliava, provava il pedale a caso, il suono sembrava quasi infantile, pasticciava, si perdeva, poi si è fermato e la magia era finita improvvisamente.
Non si è arreso, però, ha spianato il libro –nuovo, appena comprato. Sono sempre così belli i libri nuovi, ma vogliono preservarsi giovani e intatti, si rifiutano di lasciarsi aprire così cercano di richiudersi continuamente-, ha posato un volume di Bach –il Clavicembalo Ben Temperato, volume secondo- sulla pagina sinistra per tenerlo aperto a forza.
Quando ha riprovato non suonava tutte le note.
Solo due voci, superiore e inferiore, la nota più alta e la più bassa.
Da quella confusione che c’era prima –tutti quei sedicesimi nella voce in mezzo, tutto quel casino- la polvere, la nebbia, il rumore sono sparite per lasciare posto a una dolcissima disperazione che si è sbozzata, definita e sviluppata di battuta in battuta.
Lui entrava piano nella melodia, sudava quasi, ma gli occhi brillavano.
Le mani tremavano mentre si muovevano a cercare le note, erano tese, un fascio di nervi, non volevano sbagliare e spezzare la meraviglia, lui non voleva confondersi, voleva finire almeno quelle due frasi, quel capolavoro scritto su un pentagramma.
Io l’ho guardato, da fuori, poi ho chiuso gli occhi.
Mentre ascoltavo, il sole stava cominciando a tramontare.
La città era illuminata di rosa, le note mi avvolgevano.
E’ stato quel giorno che ho capito di vivere una vita meravigliosa.

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