mercoledì 23 marzo 2011

Ultimi Giorni



Superato il mesiversario della fine della scuola, e abbondantemente ricominciata la stessa, vale la pena ricordare la situazione in cui si sguazzava al liceo di Lanzano -classe 4 P- in quegli ultimi giorni di quarta liceo.
4 P: una classe prevalentemente -molto prevalentemente: la fauna maschile infatti si limita a numero tre unità- femminile, con alte ambizioni e riconoscimenti a causa dell'impeccabile condotta e media dei voti. Tale fama ben lustrata e gelosamente conservata durante otto lunghi e faticosi mesi di studi intensivi e livelli stellari di competitività, crolla inesorabilmente però nell'ultima frazione di periodo scolastico: a giugno, conclusa l'ultima verifica -la ventitreesima nel giro di tre settimane-, un rilassamento dirompente si infonde negli animi delle studentesse, che subiscono una metamorfosi incontrollabile.

Sabato, cinque giugno duemiladieci. L'atrio del liceo brulica sonnacchiosamente di studenti e studentesse in magliette a maniche corte. Al suono della prima campanella, l'aula della 4 P è ancora semivuota, ma già l'anarchia insita e l'inerzia testarda contro la fatica dei mesi precedenti impregnano le pareti della stanza. Sedute sui banchi, le capisalde della classe discutono animatamente, infuocando i discorsi di pettegolezzi e sputtanamenti all'ultimo grido, ovviamente riguardanti solo ed esclusivamente le proprie compagne di banco, di cui sono poi confessore e amiche del cuore nel momento del bisogno di riempire il loro carnet di vociferazioni maligne ed indiscrete.
L'aula va via via riempendosi di alunne mano a mano che i secondi scorrono verso le otto in punto, ora della seconda campanella.

C'è l'alternativa, quella che scivola in classe frenando con i piedi -scarpe di tela ai piedi, con suola di corda, capacità di frenata pari a quella di una saponetta sulle piastrelle del bagno-, ansimante dopo essersi lanciata in una corsa forsennata in corridoio rincorrendo una compagna di classe. Entra, incespica nell'attrito nullo con il pavimento, vola, atterra su un banco di pancia come una foca. E lì resta, priva della forza necessaria a risollevarsi, gli addominali trascurati, ore di palestra sfumate per ripassare storia dell'arte.
C'è quella che entra frugando nella borsa, e alza la testa di scatto -occhi discretamente fuori dalle orbite- chiedendo un'elemosina di almeno venti centesimi, domandando a tutti se possono prestarle qualche spicciolo per prendere un caffè alle macchinette -è il terzo da quando si è svegliata-, fino ad arrivare a domandare ai bidelli di passaggio se mica hanno cinque centesimi, dato che dalle compagne ne ha racimolati solo trentacinque. Poi in ricreazione, assieme ad un'altra amica come lei caffettomane, ma fornita di denaro, andrà a farsi offrire un caffè ricreativo.
C'è quella che entra strascicando i piedi, appoggiandosi a banchi, compagni, muri, stipiti delle porte, professori e bidelli, ormai distrutta e prosciugata da ogni energia; gli occhi, decorati da profonde tracce scure scavate fino al mento, le si chiudono, la palpebra ondeggia ad ogni suo passo. Entra con un mugolio di saluto dai mille significati, di cui novecentonovantanove sono invettive contro la seduta di spettegolamento posta al centro della stanza. Si abbandona nel suo banco d'angolo con un tonfo sordo, e lì -testa su mano, mano su braccio, braccio su gomito, gomito su tavolo- sprofonda in un coma ovattato e profondo.
C'è invece quella a cui lo stress dona un simpatico effetto contrario: entra, cuffie dell'ipod che penzolano dalle orecchie e caccia un acuto lancinante, non necessariamente coerente a ciò che l'ipod le spara nei timpani. Getta la borsa in direzione del banco, incurante degli ostacoli che troverà sulla traiettoria, ed inizia ad invocare i nomi delle amiche trillando e cinguettando a gola spiegata su toni lirici a frequenza inimmaginabile e tono devastante, gli occhi spalancati, saltellando tra i banchi e cantando canzoncine stralunate, muovendo i fianchi a ritmo e urtando tutto ciò che è urtabile, mentre in tempo reale aggiorna il mondo di quanto le sia accaduto il giorno precedente, di cosa abbia sognato, di quanto bello sia l'oggetto delle sue attuali mire amorose.
Ovviamente tutto ciò ha delle conseguenze: la dormiente solleva la testa dalla mano -mano su braccio, braccio su gomito, gomito su tavolo- e lancia una colorita e varia serie di improperi contro la rumorosa compagna, la quale risponde a tono, dacché l' ex-dormiente nello sciorinare i suoi insulti ha raggiunto livelli vocali equiparabili a quelli della compagna.

Un momento prima del degenerare della discussione in una rissa feroce, suona la seconda campanella. Colei che per tutto l'anno aveva seguito una dieta rigidamente forzata e impeccabile, ormai persi dignità e limite della ragione, molla ogni freno e si fionda fuori dalla porta per correre a saccheggiare le macchinette, per non rischiare attacchi di fame senza soluzione a metà ora. Rientra a filo, rischiando di perdere pezzi dalla bracciata di snack che porta di contrabbando in classe, scivolando dentro assieme ai ritardatari cronici -guarda caso, i tre ragazzi: forse per orari dei mezzi, forse per scampare le riunioni di gossip selvaggio e tenersi fuori da quella gabbia di matte fino all'ultimo secondo possibile-, e giusto prima del professore.
Questi entra, posa la borsa e la giacca, guarda la situazione. E sospira.
Una folla di facce stravolte e tese su teste spettinate lo osserva dai banchi. Corpi stropicciati, vestiti in disordine senza più cura di ciò che si indossa -loro! Le ragazze più ordinate della scuola-.
Scricchiolare di involucro di dolcetto al cioccolato di sottofondo. Odore di stanchezza. Silenzio di nervoso e tensione, ostilità negli sguardi, risentimento di una corsa forsennata contro il tempo di studi e rincorse nei corridoi per farsi interrogare all'ultimo minuto -in ricreazione, anche, sìsì, va bene! Grazie, grazie!-.
Si sente che la situazione si gonfia lentamente, ancora mentre fa l'appello, tendendo ai limiti dell'impossibile, verso l'implosione.
Poi -ha appena finito di scrivere gli assenti sul registro-, dal fondo scoppia una risata. Una sguaiata risata da iena risuona tra le pareti, nonostante sia invano tentata di esser fatta tacere da un avambraccio premuto sulla bocca. È la tromba che lancia il segnale di guerra.
Il caos inizia.

La iena ridens, senza interrompere lo sghignazzare -scoppiato così, da solo; la stanchezza gioca brutti scherzi-, ormai alle lacrime scivola sotto il tavolo, senza interrompere i singulti. Il vicino di banco la guarda, rassegnato. Sono tre giorni che va avanti così. Le allunga un calcetto sotto il banco - “ou! Moeghea!”-.
Intanto, di soppiatto, l'altra vicina di banco spaccia polvere bianca ad un'amica: arrivati a quel punto dell'anno, il traffico di Oki della 4 P equiparava quello di cocaina in Colombia.
Il professore, sospirando, spiega qualcosa di incomprensibile, mentre l'attenzione al riguardo sfiora quella che un branco di trichechi potrebbe prestare ad una lezione di giardinaggio zen.
Vola un rotolo di scotch da un capo all'altro della classe, seguito da una pioggia di pallini di carta. Allo stesso tempo, di risposta, atterra una trousse di trucchi “brutto screanzato marcio, i miei trucchiiiiiiiiiiiiiiiiii! TU! Rilanciameli SUBITO!”, mentre dall'altra ala della classe proviene un “...ma è cellulite, questa?” “........NO!”
“ma sì, guarda... Ah, hai la cellulite sulle braccia!” “...Stai zittooooo!”.
Questi ululati si incrociano e mischiano con un borbottio brulicante di sottofondo che si sparge inesorabile, lentamente, crescendo di mezzo tono al minuto, creando una confusione di livelli apprezzabili.
Il professore non sente. Ha i tappi nelle orecchie mentre scrive alla lavagna, e alle sue spalle volano cartelle e cartine geografiche, mentre la risata mugghiata non si arresta.

“cara, per favore apri la finestra? Sto morendo di caldo”
“no, scusa, ho mal di gola”
“dai, sto facendo la sauna!”
“eh, ma io ho mal di gola!”
“ma porca miseria, fuori fa caldo come qua dentro, cosa vuoi che ti faccia!”
“e appunto, se fa caldo come qua dentro che senso ha aprire la finestra!”
“senti, apri quella cazzo di finestra, ORA!!”
“NO!”
e via di questo passo, mentre la risata di fondo continua e il borbottio pervade la classe.

Così le ore della mattina passano lentamente, scivolando di soppiatto nei quadranti degli orologi da polso, tra pianti disperati di stanchezza o delusione, recuperi dell'ultimo secondo, rassegnazione e felicità assopita che esploderà dopo la fine, crisi isteriche, fughe dalla classe e lunghi discorsi maturi con i professori, per dimostrare che quel voto non rispecchia l'impegno, e cercare di alzarlo di almeno un decimo.
Così è la scuola.

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