sabato 26 novembre 2011

Preludes




Suona, suona, suona, e nel suono si sciolgono le stonature della giornata, e così ogni giorno e così sia.
Ogni sera, nel conforto della solitudine, libera dalla confusione, si avvicina alla tastiera e ritrova nel pentagramma le emozioni della giovinezza, le speranze della vita che le si spiegava davanti, le passioni e via dicendo. Le riassapora brevemente, tutte assieme, poi -le dita non più allenate come un tempo- si alza dal seggiolino e si dirige verso la camera da letto.

Ritrova ogni sera anche un fumatore, nel cortile. Ne scorge la presenza dalla finestra vicina al pianoforte -una finestra dal disegno un po' inglese-, ormai da anni. Non sa se è un uomo o una donna: tra i palazzoni non c'è luce, e tutto ciò che vede è un'ombra quasi immobile vicino al portone e il minuscolo tizzone della sigaretta, ma è sicura che lui o lei sia lì ad ascoltarla, e che siano legati strettamente da un silenzioso appuntamento giornaliero, capitato la prima volta per caso, in un passato quasi remoto.
Lei suona, e scarica la tristezza, cumulo di un lungo giorno, e quando finisce getta uno sguardo dalla finestra: la sigaretta, giù, brilla ancora solo un attimo. Lei sorride, e spegne la luce. Buio; la giornata è finita.

Appartamento numero diciassette, quarto piano di un vecchio palazzone grigiastro.
Molti libri, disordine casalingo, carte e lettere non aperte sparse su un brutto tavolino in entrata. Nel salotto, un vecchio pianoforte ben accordato e posto vicino a una finestra con vista sul cortile.
Sera di settembre, di ore a tempo alterno. Sera di nuvole.
Torna a casa trascinando i piedi stanchi e il corpo sprofondato in una triste spossatezza. Quarto piano, chiave nella toppa, cigolio di cardine e borsa sul divano. Cena, sola, sola, sola.
Sparecchia, poi va al pianoforte, spinta dal miraggio di un sollievo musicale e di una compagnia lontana, una scintilla fredda e minuta le brucia pancia e petto per un secondo.
Preludi di Chopin, opera ventotto. Libro logoro e consunto, pagine incartapecorite che si staccano. Butta uno sguardo dalla finestra, ancora nessuno.
Attacca il quarto.
Quanto poco reagiscono i tasti al suo tocco, ora. Quanto poco hanno sempre reagito, in fondo, quanto troppo si è illusa di poter risvegliare dalla pancia della balena un canto nuovo e melodioso. Quanta fatica, quanta stanchezza del mondo.
Lo pensa mentre si svuota l'anima, riversando l'amarezza sulla tastiera. Senza volerlo, sbircia oltre il vetro per scorgere qualcuno, ma il buio non lascia posto al fuoco di un fiammifero o a cenere di carta e tabacco. Un dito cede, e il preludio si interrompe malamente a metà.
Gira le pagine, con un po' di stizza. Preludio venti.


Tre righe soltanto, così breve, così intenso. Non ci sono ricordi, in questo brano, solo il presente e la sua traccia che lentamente si spegne, misera. E' finito, e ancora non c'è nessuno. Inizia, subdola, l'angoscia, e sveglia il senso di abbandono che tante volte ha messo a tacere; entrambi si sommano alla solitudine di una misantropia leggera, alla frustrazione e alla rabbia, e tutto diventa tristezza, tutto si scioglie in un'unica parola: tristezza; cappa pesante umida e scusa che le piega la testa e le spalle sotto il suo peso.


Attacca l'ultimo preludio, il ventidue, con forza e disperazione tempestose: dopo poche battute le mani vanno già da sole, senza bisogno di note scritte, trascinate dalla foga e guidate dall'abitudine.
Il preludio finisce. Il buio sale dal cortile.

Chiude il libro, chiude il coperchio della tastiera, apre la finestra, non spegne la luce.
Tocca il pianoforte mentre sale sul balcone, poi guarda il nero dove il fumo stanotte non c'è.
"Aspettami" pensa.
Poi è solo vento freddo, e buio ancora.

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